Scrutavamo l’orizzonte

Scrutavamo l’orizzonte con attenzione propiziatoria. Ciascuno voleva essere il primo ad avvistare in lontananza la fascia di luce arancione che annunciava la fine della penosa attesa. Un tempo schiavo di un altro tempo. Arrivavamo trafelati alla fermata del pullman qualche minuto prima delle sette e iniziavamo ad aspettare, gli occhi fissi sulla strada provinciale. Ne interrogavamo l’asfalto rivolti verso nord, dove dalla zona industriale entrava in paese scendendo dalle montagne. “Quello è l’autobus?” Aguzzavamo la vista. Aveva appena fatto capolino dalla macchia di robinie che fiancheggiava la curva laggiù in fondo un mezzo rossiccio in cima, e quel rossiccio ancora omogeneo avrebbe potuto tra poco diradarsi e svelarsi come le lettere che componevano la destinazione e le fermate intermedie. Eppure non succedeva, il rosso si ostinava e restava un massiccio, insignificante rosso che si faceva anzi sempre più intenso. “No, è solo un camion”. Il sollievo strappatoci come illusorio si ripiegava in un’accresciuta stizza. Pestavamo i piedi. 

Poco importa se ci piacesse o no andare a scuola: ogni minuto in più sul ciglio fangoso di quella strada era un minuto in meno in città. La città. Smaniavamo per svolazzarci intorno e addosso come falene assetate di luce, eravamo lusingati di respirarne l’aria limpida per qualche ora al giorno – e proprio queste ore così preziose dovevano essere decurtate e il loro esordio guastato dal maledetto pullman che non arrivava mai. Dopo un po’, non potendo più reggere la tensione, ci scoraggiavamo e lasciavamo vagare la mente e gli occhi, campo visivo e visione disaccoppiati mentre guardavamo senza vederle la solita siepe di alloro, la solita serranda arrugginita, la solita aiuola brulla, cullati dallo sfrecciare delle auto. Capitava di riaversi con un sussulto ed essere colti dalla paura che il pullman fosse passato nel frattempo, che ci avesse colti tutti impreparati e, senza nessuno a fare il segnale di prenotazione della fermata, fosse passato oltre. Qualche volta succedeva. Allora, con un tuffo al cuore e un po’ oltraggiati, correvamo sbracciandoci fino alla fermata successiva, e di solito l’autista aspettava, ma solo se eravamo abbastanza numerosi. 

“Quello è l’autobus?”, e magari era già la terza volta che la domanda risonava. Seguivamo gli sviluppi del nuovo rossore con diffidenza. A un certo punto, però, le lettere arancioni si stagliavano inequivocabili sullo sfondo nero, “è l’autobus!”. Con giubilo raccoglievamo gli zaini da terra e ci ammassavamo dove normalmente veniva a trovarsi la porta davanti. Quell’ultimo minuto di attesa era quasi piacevole: finalmente l’indeterminatezza era troncata, l’oggetto del nostro aspettare, che, finché la distanza e le robinie lo celavano ai nostri occhi, avrebbe potuto non essere mai partito, essere rimasto bloccato chissà dove, essere destinato, insomma, a non arrivare, era adesso reale, presente, un parallelepipedo in moto  rettilineo verso di noi – la certezza ci scaldava il cuore.