Riflessione sulle assunzioni

Da un lato, a parole, sento spessissimo nel contesto di colloqui di lavoro enfatizzare l’importanza di imparare dai fallimenti, investire sulla propria formazione, sperimentare, mettersi in questione, rifiutare il conformismo opportunistico e simili.

A parole.

Perché poi, nei fatti, mi pare che si tenda a penalizzare:

– Chi vede e lascia vedere i propri fallimenti come un momento doloroso ma imprescindibile, costruttivo e non squalificante, a fronte di chi, invece, è abile nel nascondere i fallimenti in cui è incorso e costruire narrazioni tutte incentrate sulla nozione di successo come valore supremo e ultimo, venuto meno magari quella volta lì tanto tempo fa in quel contesto di poco conto solo per essere trionfalmente e definitivamente riconquistato da un eroe in tal modo fortificato e immunizzato.

– Chi investe sulla propria formazione senza potersi permettere lo sforzo finanziario necessario per master in cui la funzione di certificazione è comunque in genere preponderante rispetto a quella di formazione, e allora invece di investire migliaia di euro investe tempo ed energia; e questo investimento, che si traduce in un miglioramento di quel che sa fare e di quel che sa pensare, sfugge tra le maglie larghe di sistemi di valutazione dei candidati che privilegiano i nomi altisonanti di grandi aziende e università prestigiose a scapito delle effettive capacità, misurate con poche domande trabocchetto standardizzate, vaghe dichiarazioni motivazionali e giochini. D’altronde, cercare di capire davvero cosa sa fare un candidato è più costoso, presupporre un generico ideale trasversale del “tipo sveglio” conviene. E allora il tempo passato a imparare e basta è tempo sprecato, sei stato “fermo” mentre gli altri si davano da fare, hai peccato di ignavia perché non hai acquistato per i tuoi sforzi un bollino di autenticità.

– Chi cerca il cambiamento senza avere una rete di sicurezza, taciuto presupposto di ogni audacia e innovazione.

– Chi si interroga autenticamente sui propri limiti invece di rimuginare e abbellire continuamente i gratificanti ricordi di complimenti, feedback positivi, risultati ottimi. Chi vede i propri errori e ne assume la responsabilità invece di attribuirli ad altri o ineluttabili circostanze. Se il fallimento si sta facendo pian piano strada tra quel che è lecito nominare, l’errore, a meno che non sia una minuzia innocente o inconsapevole, è un mostro taboo. Quando i maestri dell’arte dei colloqui di lavoro dimostrano la massima perfezione del giochino di elencare alcuni difetti e alcuni pregi, non mancano mai di elencare tra i pregi doti brillanti e originali come la capacità di risolvere problemi o l’intelligenza emotiva, né mancano mai di enumerare difetti dall’ambigua negatività segnalata in genere dall’avverbio troppo, come un’eccessiva sensibilità, un’eccessiva abnegazione, e il più classico in assoluto, il perfezionismo.

Ogni colloquio di lavoro, in fondo, funziona come un test di auto-promozione e la capacità di svolgere il lavoro in questione perde sempre più peso a favore della capacità di “vendersi”.

Ora, io non condanno l’auto-promozione in sé, è una pratica necessaria e un’abilità utile; ma mi pare che ci stiamo spingendo un po’ troppo in là se rischiamo di finire per renderla il solo fattore rilevante per accedere a qualsiasi ruolo – con risultati deleteri sia sulla qualità del modo in cui questi ruoli sono svolti, sia più in generale sul patrimonio di diversità di modi di pensare a di agire delle nostre società.