parlando di soldi

Ho di recente finito di ripagare un grosso debito. Lo avevo contratto nella convinzione che perdere il lavoro fosse quasi impossibile, per sfizio più che per bisogno, denaro scialacquato in spese inutili e rozzamente edonistiche. Un albergo un po’ più bello, corse in taxi, pezzi d’arredamento, pasti a domicilio e chissà quant’altro di così poco importante che l’ho dimenticato. Non c’è stato tempo per mangiarmi le mani quando tutto è andato storto, solo una corsa frenetica contro il tempo per salvare il salvabile e scappare con ancora un po’ di spiccioli in tasca, una manciata di neuroni superstiti e uno scorcio di futuro (il fegato era già irrecuperabile). Sono partita di fretta come un ladro, verso un altro paese, senza riuscire, per pigrizia e per demenza, a recuperare nemmeno quel che il fisco mi doveva e facendomi multare dalla compagnia telefonica per mancata restituzione dell’apparecchio (ma ho scordato di pagare). Ho reso quel che dovevo all’ex datore di lavoro in cinque rate da tremila euro l’una, ogni mese inviare il denaro era un macabro rituale. Da un po’ vivo con dei fondi pubblici arraffati con false credenziali di aspirante statistica – non sono molti e tra poco finiranno, non vedo l’ora di essere libera dalle piccole responsabilità e finzioni che mi impongono. La libertà liquida, scivolosa e tiranna del denaro proprio non fa per me: si accettano pagamenti in natura.