Cinque anni fa iniziavo la mia esperienza alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ero piena di sollievo per aver superato un concorso che mi garantiva sussistenza e reputazione per i cinque anni successivi della mia vita universitaria e mi sollevava dalla responsabilità di scegliere tra qualità ed economicità della formazione. Ero piena di orgoglio per un risultato apparentemente molto meritorio acquisito apparentemente senza molto sforzo. Ero piena di entusiasmo per una disciplina che ancora non conoscevo e di cui mi accingevo a diventare studentessa, la filosofia, che era in fondo più che altro un entusiasmo per il mio modo di pensare.
Alle persone che spietatamente chiedevano a me ragazzina quali fossero le mie ambizioni professionali, io non sapevo rispondere, perché dentro di me pensavo che l’unico risultato che desideravo era di ‘diventare un filosofo’, ma dirlo senza ironia era un tabù: solo un povero ingenuo esaltato avrebbe potuto affermare seriamente una cosa del genere, lasciavano trasparire le conversazioni. Così questo pensiero invece di venire esplicitato e ridimensionato nel dialogo è stato celato e separato dal mondo in una vana e sterile ricerca solitaria di soddisfazioni intellettuali nei meandri illuminati casualmente dalla mia curiosità sregolata di un corpo di conoscenze che ero e sono lontanissima dal padroneggiare anche in minima parte. Ho buttato molte ore e molti anni inseguendo sogni indeterminati di comprensione senza avere la minima idea di ciò che volevo comprendere. Ora penso, se solo qualcuno mi avesse dato una mano ad aprire gli occhi sull’insensatezza di questo andazzo.
Eppure la Scuola Normale tutto era fuorché un luogo dove aprire gli occhi. Il principio guida nella gestione del giovane materiale umano ch’essa ingloba è molto vicino a quello che alcuni sociologi hanno chiamato l’effetto San Matteo: a chi più ha, più sarà dato. L’eccellenza è concepita come qualcosa di già formato, che bisogna raccogliere e isolare il più possibile per proteggerla dalle intemperie e dalle erbacce. Dove si vede brillare la luce di questa ‘eccellenza’, cioè dell’allineamento tra le performance di un giovane e le aspettative di uno o più rappresentanti dell’establishment universitario, si procede subito a scavare fossati simbolici tra essa e tutto il resto. Già dopo l’ammissione, i giovani ammessi sono separati dalla società dei loro coetanei in collegi dove una cultura elitista di esclusivismo si riproduce a ogni generazione. Essere “normalista” è generalmente e quasi ovviamente ritenuto condizione necessaria e sufficiente per possedere un intelletto superiore rispetto ai propri colleghi universitari. Poi, anche tra i normalisti, l’esoterico metro dell’eccellenza è usato per distribuire premi e punizioni senza possibilità di appello. Non esiste niente di così plebeo come una base comune di conoscenze, competenze e confronto. Regnano l’anarchia e la legge del più forte e il confine tra i meriti nelle pubbliche relazioni e quelli nello studio è alquanto sfumato. Nell’accademia che coltiva le materie umanistiche non esistono né una diffusa etica egualitaria né forme serie di controllo dei controllori, con il risultato che la maggior parte di questi ultimi non ha né sente alcun obbligo di trattare tutte e tutti allo stesso modo e di offrire a tutte a tutti le stesse o almeno analoghe opportunità.
Così, coloro a cui manca l’eccellenza “ready-made” vivono in modo più o meno esplicito e sofferto ai margini come scarti. Ed è stato qui, con un piede dentro e uno fuori da un sistema che non mi ha mai davvero disconosciuta senza al tempo stesso avermi mai davvero riconosciuta, che ho cominciato a scoprire un approccio diverso agli studi. Un approccio che valorizza le differenze senza tradurle sempre in gerarchie, che prende il suo tempo e la sua libertà per sviluppare ogni conoscenza in ogni mente nel tempo e nel modo peculiare che l’alchimia tra le due richiede, che permette lo sviluppo relazioni paritarie di confronto tra esseri umani pensanti dove prima c’erano solo agoni e cortesie rituali. Mi auguro di portare questo approccio sempre con me, come mi auguro di poter continuare, in una vita che ormai inizio a intraprendere fuori dall’università e dal suo mondo, a cercare di ‘diventare un filosofo’, qualsiasi cosa ciò significhi.
Dal punto di vista più strettamente umano invece, porterò sempre con me alcuni bei ricordi e relazioni con persone straordinarie, ma purtroppo anche il pesante fardello dell’odio, la sfiducia e il disprezzo che ho incontrato, maturato e contribuito a generare nel corso di anni di inesperta e goffa ricerca della felicità personale nell’ambiente della Scuola. Lo rifarei? No. Con il senno di poi avrei cercato, per usare un lessico darwiniano in linea con lo spirito dell’istituzione, un percorso di studi e di vita più “adatto al mio livello”; con il lessico di questa ultima settimana in cui ho riflettuto sugli anni passati, un percorso in un contesto meno simile alla reggia di Versailles e più simile a un’università.