La città sotterranea / 2, inizio

Sento nominare le catacombe non ufficiali per la prima volta a una festa a casa di un giovane imprenditore conosciuto da poco, un’estate. 

Studentessa fuoricorso di comunicazione in Erasmus a Parigi, ero intenta a dilapidare i tempi supplementari della mia giovinezza e i generosi o supplici finanziamenti dei miei genitori corteggiando questo o quel bel giovane di successo e bevendo per dimenticare i rispettivi rifiuti. Con sciatteria trascinavo il peso morto del futuro, la tesi, la ricerca di lavoro, i concorsi, cartellini da timbrare al risveglio a mezzogiorno e scordare all’ora dell’aperitivo. Nemmeno Parigi esisteva davvero per me se non come seccante distanza da percorrere, minuti preziosi sottratti al mio sonno onnivoro, o geolocalizzazioni di speranze, ritardi, batoste e pianti.

Una rete di centinaia di chilometri di tunnel e cunicoli abbandonati sotto la rive gauche, niente luce e niente connessione, accedervi è vietato ma alcuni appassionati conoscono gli ingressi nascosti. Il mio nuovo amico, Jean, è venuto a conoscenza di un ingresso e ha ottenuto una mappa; ha anche già esplorato qualche breve tratto. Inizio a condividere con lui l’entusiasmo per questo luogo misterioso e pericoloso, e per l’opportunità rara di poterlo visitare. 

Organizziamo una prima escursione. La paura e le riserve e la decisione risoluta di superarle in nome dell’avventura sono un nuovo linguaggio, un nuovo programma nel mio sistema, che mi fa riattivare dopo tanto tempo gli arrugginiti accenti della lingua degli scopi e dei progetti. Mi informo su internet, leggo pagine in francese sulla storia e la geografia delle catacombe e blog di esploratori che le hanno visitate. Mi reco in un pomeriggio di pioggia fino al Decathlon di Cluny la Sorbonne per comprare materiali che giudico necessari come una torcia elettrica, molte batterie, un paio di stivali da pioggia, una bussola, uno zainetto da montagna.

Siamo un gruppetto di cinque persone, Jean, un suo parente, un altro ragazzo incontrato alla festa e due mie amiche, Eleonore e Sonia. Veniamo da paesi diversi, Francia, Germania, Italia e Moldavia, e francese, italiano e inglese sono le lingue che risuonano nelle nostre gaie e sgrammaticate conversazioni.

Il nostro primo tentativo di discesa termina in un fallimento.

Già spostarci dalla casa di Jean dove ci eravamo incontrati per prepararci fino all’area del quattordicesimo arrondissement in cui è situato l’ingresso che lui conosce presenta difficoltà impreviste: la linea del tram è interrotta per lavori in corso e questo ci costringe a una lunga deviazione. Arrivati, iniziamo eccitati e pieni di aspettativa a costeggiare nell’umido del piovischio un muro oltre al quale, Jean garantisce, c’è la magica imboccatura della città sotterranea. Il muro, tuttavia, non accenna ad abbassarsi o a interrompersi: è invalicabile. Così almeno appare a me, che soffro di vertigini e non faccio alcuna attività fisica da molti anni. Jean vede le cose diversamente e individua un punto in cui secondo lui si può scavalcarlo senza difficoltà, essendo la porzione più in alto sostituita da una una ringhiera. Cerco di oppormi con una nota di disperazione, dev’esserci un altro modo, mi avevano promesso niente scalata, niente altezze, non posso farcela, vado in panico; ma in fondo so che non posso tirarmi indietro, tanto più che tutti, anche le mie due amiche, compiono l’operazione senza storie, con l’aiuto dei ragazzi. Mi inerpico sulla ringhiera tremando come una foglia, sudando freddo alla sensazione di mani e piedi dentro a stivali troppo grandi – ho prestato i miei a Eleonore per evitare che si ritirasse – che scivolano sul ferro e il cemento bagnati, in equilibrio precario in cima e poi, dall’altro lato, a stento trattenendo grida di terrore alla vista dell’abisso di più di dieci metri da cui mi trattiene solo uno strettissimo cornicione. Da qui con un piccolo salto bisogna raggiungere una scala, su cui si ridiscende fino alla base del muro. Gli altri mi rassicurano e mi tengono la mano, questo salto così rischioso mi sembra oltre le mie possibilità ma non ho scelta e dobbiamo sbrigarci prima che qualcuno ci veda dalla strada. Atterro sulla scala, quasi presa di peso da Jean, con le gambe che tremano così tanto che fatico a reggermi in piedi. Ancora scossa e molto umiliata, scendo i gradini in silenzio, un po’ estraniata dall’eccitazione del resto della comitiva e infastidita dalle loro parole di consolazione. 

Arrivati a terra iniziamo a camminare in direzione dell’ingresso, sul terreno dimesso ed erboso di vie abbandonate e parchi chiusi. Camminiamo abbastanza a lungo, già affascinati dai rampicanti e i graffiti che incorniciano la prospettiva. Scopriamo anche un cancello da cui avremmo potuto passare di qua del muro senza rischiare di romperci l’osso del collo, che per me rappresenta un gran sollievo e la promessa di un ritorno sotto migliori auspici.

Raggiungiamo infine la discreta ma inconfondibile apertura tra muro e terra, come di una tana, l’ingresso delle catacombe. La circondano fango, graffiti e rifiuti, ed è frequente incontrarvi altri gruppi di esploratori. Dobbiamo chinarci, piegarci e raggomitolarci per calarci attraverso, scivolando quasi giù nell’imboccatura di roccia sporca fino a uno stretto cunicolo pochi metri più in basso. 

Uno dopo l’altro, ci allineiamo all’inizio di una galleria più alta poco più in là, i piedi nell’acqua torbida e fresca, respirando l’atmosfera, ambientandoci, valutando le nostre sensazioni e reazioni. Facciamo pochi metri prima che Sonia inizi ad addurre l’acqua a problema insormontabile. Più in generale, ha paura, si sente claustrofobica, non è sicura di poter reggere un’escursione laggiù. Consideriamo l’opzione di separarci ma è tardi e non ce la sentiamo di lasciarla tornare da sola, o insieme a uno dei due ragazzi che non conosciamo bene e che non ispirano particolare fiducia. Ottengo che almeno ci aspettino fuori per mezz’ora mentre con Jean ed Eleonore camminiamo un po’ oltre nella galleria. Mezz’ora vola, attraversando a passi lenti e stentati per paura di inciampare quello spazio così pregno di straordinarietà, cercando di assorbirne più sensazioni possibili, ma con un’infinita tristezza per la nullità dei pochi metri che ci è dato percorrere in quella galleria spoglia di fronte alla chilometrica ricchezza custodita nel buio che si stende di fronte a noi.

Veniamo superati da una comitiva guidata da un uomo barbuto e magro che parla con autorità. Sento che il nostro tempo sta per scadere e ne sono desolata, cerco perciò di aggrapparmi a un contatto con quell’uomo per aumentare la probabilità di un ritorno. Gli chiedo, nel mio francese ridicolo, “Lei è una guida?”. Alla sua risposta affermativa, azzardo una frase e una richiesta più complicata, e con parole mal scelte e goffa insicurezza gli domando se posso partecipare a una delle prossime escursioni da lui condotte. Lui, con fretta e quella che interpreto come una buona dose di disprezzo, mi risponde che la prossima escursione sarà il primo settembre e mi lascia uno pseudonimo e il suo numero di cellulare, prima di sparire inghiottito dalla prossima curva mentre noi, riluttanti, facciamo marcia indietro.

Facciamo marcia indietro verso l’uscita, verso una serata passata a scolare lattine di birra come tutte le altre serate. L’eccitazione per la quasi avventura però illumina un poco anche questo indegno finale, mentre chiacchieriamo seduti per terra in un parco abbandonato. Due giovanissimi ed eccentrici turisti olandesi si intromettono nel nostro circolo movimentando la piattezza dei nostri scambi con le loro pazzie, raccontano che per risparmiare dormono nelle catacombe e bevono acqua piovana, e chiedono informazioni che io, reduce da pomeriggi di studio sui tunnel e le loro attrazioni, sono felice di fornirgli, con una certa invidia per la loro scapestrata libertà e audacia che probabilmente gli permetterà di vedere quei luoghi nascosti e carichi di mistero che io devo accontentarmi di conoscere in immagini e parole.

Il primo settembre è lontano e l’impressione che ho ricavato dall’interazione con la guida non è stata positiva, perciò insisto con Jean ed Eleonore per impegnarci a tornare già la settimana prossima, con l’imperativo di arrivare almeno alla più facilmente raggiungibile tra le sale celebri delle catacombe, la Plage.

Abitavo in una banlieu a sud di Parigi, al decimo piano di un imponente condominio popolare. Ero arrivata pochi mesi prima alla Gare du Nord sull’Eurostar dall’Inghilterra, schiacciata, sfinita da tre valigie e due zaini colmi di ciarpame inutile e libri casuali. In Inghilterra avevo un lavoro fisso come informatico, ma avevo deciso di mandare tutto in malora per tornare all’università e alla ricerca, al tempo stesso sogno di un’infanzia studiosa che non potevo rassegnarmi a dichiare fallito e terra del bengodi del sonno diurno e della sregolatezza, rimpianta ogni mattina al momento di andare in ufficio. 

A Parigi avrei dovuto scrivere la tesi di laurea e aiutare ad analizzare i dati in un laboratorio di ricerca sulla comunicazione politica, ma dopo qualche settimana il palesarsi del divario tra le mie competenze e motivazione e quelle che sarebbero state necessarie a fare qualcosa con quei dati condusse a un tacito compromesso per cui avrei scaldato una sedia e il mio pc per circa sei ore al giorno, preso parte a qualche meeting, salvato insomma la finzione di formarmi come da mission dei tirocini Erasmus, e per il resto sarei stata libera di dedicarmi ai miei progetti, cioè a sbattere la testa confusa contro un muro di idee contraddittorie, vaghe e cangianti circa cosa farne della mia vita. L’unica conclusione a cui arrivai presto e oltre la quale mi mossi ben poco fu “Qualsiasi cosa, ma non analizzare dati”.

Dalla sedia che scaldavo, bastava girarsi per godere di una vista mozzafiato sui tetti, i terrazzi e i comignoli del settimo arrondissement. La ricordo in particolare attraverso una foto carica d’odio che caricai su Instagram: il cielo primaverile di un azzurro vivo e delicato al tempo stesso, qua e là sporcato da spruzzi di nuvola o graffiato da strisce di aeroplani, placido, né bello né brutto; e né bella né brutta al punto da farmi innervosire trovavo anche l’armoniosa varietà bluastra di attici, rampicanti, finestre e tetti sobri ed eleganti che si perdeva a vista d’occhio e solo in lontananza lasciava spuntare, come da un’altra dimensione, minuscole, le guglie di una chiesa, il profilo di un grattacielo. Un mondo di opulenza trattenuta, di solenne sicurezza, rispetto a cui la mia gridata povertà era al tempo stesso oltraggiosamente vicina e a una distanza straziante.

Day in, day out, e in sempre più in ritardo e meno di frequente, ma a nessuno pareva importare granché. Iniziai a scrivere una tesi di laurea ma mi arenai e cambiai tema. Conobbi un gruppetto di universitari cattolici che organizzavano escursioni in Ile-de-France nei weekend: quei viaggi fuoriporta in compagnia di quei giovani colti ed estroversi erano un’isola di sospensione e letizia, momenti di evasione fisica e mentale dalle celle successive che scandivano i miei giorni feriali. L’appartamento stretto e sovraffollato, l’ascensore scricchiolante, i vagoni sporchi e stracolmi della metropolitana all’ora di punta, l’ufficio, i tristi ipermercati di periferia, allontanandosi dietro al treno la domenica mattina lasciavano la presa sul mio umore e la mia immaginazione si apriva euforica e leggera ai colori della campagna, alla storia di chiese e castelli, ai problemi pratici del percorso. Più di tutto, però, mi piaceva seguire le conversazioni dei compagni di viaggio, che erano articolate, interessanti e informate come non ne sentivo da anni, e spaziavano dalla politica alla religione alla storia alla vita parigina al gossip senza mai scadere nella banalità frammentaria che incapsulava qualsiasi argomento nel conversare mio e dei ragazzi che incontravo alle feste e nei pub. Non durò a lungo, tuttavia, perché mi innamorai del leader della comitiva e da incauta gli chiesi un appuntamento: quando lui rifiutò il dolore e l’imbarazzo furono tali che abbandonai il gruppo. Il mio unico ma ipertrofico svago tornavano a essere le serate nei bar, dove quasi ogni giorno mi concedevo qualche ora di costosa felicità fermentata.

Assicurarmi che l’alcol non manchi è una delle mie preoccupazioni principali anche in vista della nostra spedizione nelle catacombe. Non conosco sostanza più capace di riempirmi di energie positive nelle avversità, ed è pensando a come affrontare possibili problemi laggiù che compro birra e whisky e li imballo con cura in fondo allo zaino. Jean è più ottimista e i litri di birra e vino di cui si carica sono concepiti per festeggiare e rilassarci una volta arrivati alla Plage.