“Ti va di bere qualcosa insieme stasera?”. Quando lesse il messaggio whatsapp, G. fu invaso dal fastidio e pensò “Perché proprio a me?” Non solo quella pazza psicolabile di C., che si credeva si fosse ritirata dal gioco una volta per tutte, era tornata sulla scena più piagnucolosa e ficcanaso che mai, non solo si era trasferita proprio nella sua città e si era infilata proprio nel suo gruppetto di amici, ma aveva anche scelto proprio lui per quelle inopportune e ridicole avances per cui era così nota. Quel che sarebbe successo dopo era facile da prevedere, come in un diagramma di flusso. Una risposta troppo gentile sarebbe solo servita ad alimentare il malinteso e rendere ancora più traumatico il momento della verità, il silenzio rischiava di scatenare insistenze e intrusioni più spinte; il male minore era essere netti e stronzi, una scusa che era ovviamente una scusa, ma che era altrattanto ovviamente insindacabile e definitiva.
“No, stasera vado a correre”. G. si sentì molto fiero delle sue doti di problem-solving. Gli effetti collaterali della sua strategia erano minimi, il pericolo scampato grande, l’episodio sarebbe stato un bel tema per racconti e scherzi con amici e conoscenti dell’università dove lui faceva il ricercatore e C. era studentessa fuoricorso. Alcuni amici dal cuore tenero lo criticarono in nome della debolezza di C., “Sei stato troppo stronzo, G.”, “L’ho sentita, soffre molto”, e queste furono le uniche rare e innocue gocce del mare di dolore della studentessa che riuscirono ad arrivare fino a lui.
C. piangeva al lavoro, in metropolitana, a casa. Questa volta ci aveva davvero sperato, ci aveva creduto. Il sogno di frequentare il colto e brillante G. era diventato un’abbreviazione per il sogno di accedere lei stessa al circolo dei colti e dei brillanti. Se non era stata in grado scrivere progetti di ricerca abbastanza buoni, di guadagnarsi la stima dei docenti, poteva però comprare un vestito nuovo e farsi i capelli e colorarsi gli occhi per qualcuno che ci era riuscito, partecipare un po’ dell’intelligenza e del sapere attraverso l’adorazione servile di chi se li visti riconosciuti dalla comunità.
Al bar, o nel corso delle giornate fuori porta con il gruppo, G. snocciolava fatti, meccanismi, citazioni, li legava con maestria in discorsi lunghi e avvincenti, modulando toni e pause, da abile oratore quale era. Discettava di politica, religione, immigrazione, università, cibo etnico, conoscenti comuni. C. ascoltava estasiata, seguiva ogni frase, ogni nesso, all’erta per trovare domande da porgli o osservazioni da fare. Di queste ultime non ne aveva quasi mai, la consequenzialità e l’esaustività del parlare di G., unite ai sentimenti di lei, non lasciavano spiragli per lo spirito critico. Di domande invece ne avrebbe fatte migliaia, per sentirlo continuare ad approfondire e a spaziare, per allungare quei momenti di apprendimento innamorato fino al limite della loro possibile estensione.