Cover letter per il girone dei falliti

Ho passato gli ultimi mesi a scrivere cover letter, personal statement, lettere di raccomandazione, ecc., in cui con più disgusto che fatica mi sono trovata a dover incorniciare, decorare, condire e montare la mia storia in modo da renderla appetibile a giurie di fini intenditori di personalità promettenti e grandi potenziali. Pare che oggi se non sai raffigurare la tua vita come una storiella edificante in cui sei l’eroe che trionfa sul male, non ti assume nessuno. (Forse è sempre stato un po’ così, ma in modo più implicito). Oggi però, litigando, mi sono accorta che dimenticare e minimizzare i vizi per queste fiabe ha l’effetto di concedere loro ancora più spazio per spadroneggiare incontrollati nella mia persona tristemente reale.

Così, ho deciso di dedicare questa sera proprio ai difetti, ai problemi e ai fallimenti, e raccontare e raccontarmi la storia dalla loro prospettiva. Perché è facile dire che la realtà è sempre un misto di bene e male; perché è un misto talmente intimo, e perché la memoria dei nostri motivi e dei nostri pensieri è talmente lacunosa, che per quanto ne so con certezza poteva essere quasi tutto bene o quasi tutto male, e solo la forzatura di valutare l’invalutabile costringe a scegliere in quale dei due contenitori piazzare questo e quello. Ci insegnano a costruire narrazioni positive e ispirazionali, e per il gusto di fare l’esatto opposto dopo mesi di ligia obbedienza, mi sono presa la libertà di riflettermi per il tempo di qualche pagina nello specchio scuro del mio anti-potenziale.

Nel corso della mia vita universitaria e lavorativa ho avuto un discreto numero di ottime opportunità, ma per un misto di ingenuità e arroganza le ho sprecate tutte. Non in malafede, ma in nome di principi e valori mal compresi e peggio applicati, di sogni sventati, fantasticherie senza fondamento. Non ho saputo mai trovare alle parole il loro senso sensato, quel che mi dicevano affermazioni, comandi e consigli erano proposizioni astratte, assolute, senza attenuanti e contesto, e non potevo farci niente. La ragionevolezza, un’estranea.

Sono colpevole, sono innocente? Difficile dirlo, se ci penso con onestà mi sembra di aver il più delle volte agito davvero in vista del meglio per come lo intendevo. Ma forse un po’ più di riflessione, un po’ più di distacco, un po’ di umiltà nel mettere in dubbio le mie credenze, avrebbero potuto a un certo punto fermarmi e farmi cambiare rotta. Eppure tutt’ora trovo difficile adattarmi all’idea di aver sbagliato in modo così fondamentale, ora, dopo aver perso tutto. Difficile allora che prima, quando ancora sembravo avere il vento in poppa e orizzonti in lontananza, avessi potuto davvero spogliarmi delle mie fissazioni. Come un cane o un ratto da laboratorio, senza punizioni non potevo apprendere come funzionava il mondo, il mondo del potere. Quindi ora passerò il resto dei miei giorni a prendermela con il mondo per non avermi punita a dovere, per non avermi punita prima, per avermi punita solo tutto d’un colpo quando ormai era troppo tardi. O forse sarà il caso di cominciare a prendermela con me stessa, perché l’inconsapevolezza stessa in fondo è una colpa, perché sono stata un’incosciente (e pensare che contemplavo con orgoglio il mio amore del rischio, e mi sembrava buffo che gli altri non lo condividessero, mi sentivo superiore).

Fai quel che ti pare, tanto tutto si risolverà, se credi in te e in quel che fai. Come se per credere non servissero certe condizioni, come se credere avesse in sé la propria origine e forza. Come se i riscontri del mondo e un tetto sopra la testa fossero inessenziali rispetto al credere. E allora andavo avanti, pensando solo al credere, a sviscerarlo, a trarne tutte le conseguenze e ad agire sulla loro base, senza dare il minimo peso a quelle altre cose, perché pensarci è superficiale, e poi ci pensano tutti, e bisogna distinguersi. E qualche volta funzionava, fortuna del principiante o fascino del temerario, o ancora spacciarsi per originalità, innovazione, intraprendenza. Se solo avesse funzionato meno. Immagino però anche che ai giovanotti si perdonino facilmente certi atteggiamenti e certe incomprensioni, che poi invece negli adulti diventano peccati mortali.

Non faccio parte dei pochi privilegiati che questo festino di idee e idee e idee aggrovigliate su se stesse con poche flebili radici nel mondo potrebbero permetterselo. E parlo proprio di permetterselo finanziariamente. Perché interrogarsi su come investire risorse scarse costringe senz’altro a spodestare le idee e saper piegarle al reale, anche se si è per temperamento portati a fantasticare. (Tuttavia, a onor del vero, devo aggiungere che secondo la mia esperienza coloro che potrebbero permetterselo tendono a non avere nemmeno la tentazione, in virtù di qualche misterioso influsso benefico della ricchezza e della frequentazione dei ricchi sul buon senso). Io, però, sostenni tutti gli studi universitari con una borsa di studio, e quindi fui posta artificialmente nella condizione funesta di avere questa inclinazione autodistruttiva, e in più di potermela permettere, combinazione infausta e non fisiologica.

Dunque, i miei studi universitari in filosofia furono una continua giravolta di idee, ora credo in questo, ora credo in quello, e dato che quello contraddice il primo mi sono convertita, e quello è il bene e quell’altro è un brutto errore con cui non voglio più avere a che fare. Non rispettavo niente e nessuno, perché le idee non si rispettano, le idee sono vere o false, giuste o sbagliate, punto. Quando mi resi conto che non si poteva farla così semplice, che bisognava coprire con perifrasi complesse ogni idea e dare a ognuna cittadinanza in discorsi eruditi e tutti sfumature, decisi che allora tanto valeva postulare che un’idea vale l’altra e mi misi a studiare manoscritti settecenteschi di ottica in latino che non comprendevo nemmeno. Alla fine, mi innamorai della profondità evocativa degli idealisti tedeschi, ma presto capii che sapevo decifrarvi ben poco di particolarmente significativo, pertanto decisi di non tirarla per le lunghe e laurearmi al più presto sfruttando tutti i trucchetti estetici e stilistici per far apparire un’accozzaglia di riassunti e considerazioni vaghe un prodotto di ricerca. Ottenni il massimo dei voti, ma non rimisi mai più piede in quel dipartimento.

Appurato che questa facoltà non faceva per me, ebbi l’unica idea veramente buona della mia vita, quella di iscrivermi a sociologia. Vi si possono distinguere, almeno entro certi limiti, affermazioni giuste da affermazioni errate, c’è una certa continuità, una certa accumulazione del sapere, i docenti sono in genere più amichevoli, si può parlare più o meno delle stesse cose di cui parlano i filosofi ma senza essere zittiti del tutto dal peso della tradizione e dell’erudizione, e soprattutto non si presuppone più che la logica, la morale e il gusto debbano essere gli stessi per tutti e se non ci arrivi hai un problema e sei un po’ meno umano. Questo mi piaceva, mi piaceva capire come le idee fossero molto meno indipendenti di quanto tendessero a farmi credere, e come tanti mondi diversi esistessero dentro al mondo. Era come una moltiplicazione caleidoscopica e una visione finalmente tridimensionale delle idee. Certo, era ancora solo un’idea per me. Me ne sentivo illuminata e ispirata, ed ero entusiasta della mia scelta. C’era il seme di una comprensione che, se fosse stata più profonda, avrebbe potuto forse salvarmi. Ma questo nuovo modo di pensare mi piaceva così tanto da concentrare tutte le energie sul suo lato, appunto, ideale.

Fui capace di godermi appieno tutto questo solo per un semestre, durante il quale peraltro quasi tutti i corsi erano di materie ausiliarie. Poi iniziarono problemi personali e di salute, e cominciai a rimandare e rimandare il serio impegno nello studio. Lo rimandai per tre anni, e lo sto ancora rimandando. Non che formalmente fossi ferma. Davo gli esami, e prendevo anche spesso buoni voti, ma non frequentavo i corsi e studiavo con sufficienza, giusto il necessario, i programmi non mi piacevano troppo ma non facevo alcuno sforzo per approfondire nelle direzioni che invece suscitavano la mia passione, perché avevo altre priorità. Arrivai completamente impreparata al momento della scelta della specializzazione, e, sulla base di motivi impressionistici e di alcuni corsi online di informatica che avevo fatto per ammazzare il tempo su un letto d’ospedale, decisi di specializzarmi in big data e studio della comunicazione politica.

Fui inserita in un laboratorio eccellente dal punto di vista umano e organizzativo, dove imparavo un’infinità di cose sul mondo della ricerca e vi lavoravo con grandi soddisfazioni. Le prospettive erano brillanti, e per un po’ smisi di pensare troppo alle idee, sempre occupata con i molti progetti in corso. Non durò ahimé che alcuni mesi, dopo i quali ricominciai a interrogarmi con insistenza su come potevo inserire la mia fede ispirazionale nella progettualità concreta. Vedevo le enormi opportunità del posto dove ero finita, e capivo che sarebbe stato idiota abbandonarlo. Al tempo stesso, tuttavia, non riuscivo a trovare nei nostri progetti quegli interessi teorici che avevo più a cuore. Credo che a un certo punto mi fossi rassegnata a malincuore a proseguire con decisione sulla linea dello studio della comunicazione politica, e rimandare a dopo e al tempo libero e a quando fossi sistemata e maturata il perseguimento delle mie linee preferite. Ecco un punto in cui avrei potuto salvarmi. Non c’era connessione, ancora, tra l’azione e la sua comprensione, ma sarebbe arrivata dopo, e avrei ringraziato di aver preso quasi senza saperlo una decisione tanto saggia. Eppure forse questa decisione era destinata sfuggirmi, perché l’insoddisfazione che covavo mi spingeva a cercare alternative. E alla prima alternativa che trovai, mi ci tuffai senza pensarci due volte.

Si trattava di un posto di lavoro molto ben pagato come ingegnere informatico. L’idea era, uso questa opportunità per sfuggire alle costrizioni accademiche, guadagno, uso tempo libero e ferie per gli studi sociologici che mi piacciono in completa libertà. Mandai tutto a quel paese e abbandonai l’università. Imbottita di psicofarmaci, con grossi problemi relazionali e senza un talento informatico tale da controbilanciare le prime due, presto divenne tuttavia chiaro che non ce l’avrei fatta a mantenere il mio posto. Fui retrocessa a mansioni manuali, ma una manager dal cuore d’oro allontanava l’ombra del licenziamento concedendomi svariati aiuti. Un altro momento in cui avrei dovuto cogliere l’opportunità con gratitudine. E un altro momento in cui invece feci esattamente l’opposto. Decisi che, dato che questo lavoro stava intaccando il mio benessere psicologico e la mia autostima (beni effimeri di cui oggi, mortificata, umiliata e nevrotica, mi strappo i capelli per aver non aver compreso la natura relativissima), che la cosa migliore da fare fosse non raddoppiare gli sforzi, non vedere un medico migliore che potesse aiutarmi a uscire dalla spirale di psicofarmaci mal dosati e alcolismo in cui ero scivolata, non migliorare la mia organizzazione del tempo, non trasferirmi in una casa più piccola ma più vicina al posto di lavoro, bensì abbandonare il lavoro con un salto nel vuoto sperando di trovare qualche università disposta a darmi un’altra ennesima chance di realizzare i miei “sogni” e seguire i miei interessi. Devo dire che in questo frangente fui anche istigata da molte persone a me vicine, ignare o sviate dalla loro inesperienza del mercato del lavoro e dalla mia auto-commiserazione, che con forza sostennero, forse persino formularono per la prima volta, l’incriminato proposito perdente e autolesionista, preoccupate per una mia salute che non sarebbe stata certo migliorata dalla trafila di umiliazioni e batoste e dal futuro compromesso che dovevano seguirne.

La mia università era in effetti disposta a riprendermi per gli ultimi sei mesi, con uno stage in Francia per completare la tesi e laurearmi. Per il futuro, la sempre disponibile direttrice del laboratorio dove mi ero specializzata mi suggerì di preparare un progetto per concorrere a una posizione di dottorato molto prestigiosa. Era un progetto focalizzato sull’applicazione di metodi di analisi dati allo studio della comunicazione politica: un ritorno a prima della mia assunzione. L’istituzione era molto prestigiosa, quindi non ci pensai due volte… sebbene fossi consapevole della contraddizione che celavo. Mi arrendevo a sacrificare le mie passioni *solo* per il prestigio dell’istituzione, ossia, non avrei mai intrapreso quel percorso in un’altra istituzione. Così dicevo a me stessa, percependo al tempo stesso che si trattava di un ragionamento non troppo in linea con il politicamente corretto accademico, e perciò lo tenni nascosto, e, ipso facto, feci intendere alla professoressa di essere invece desiderosa di svolgere quel progetto in quanto tale, non importa dove. E d’altronde, ci avevo dedicato due interi mesi di lavoro, e per di più avevo concordato l’intero tema del mio stage francese e una nuova tesi di laurea in base a esso. Dall’esterno, a lei, appariva come il ragionevole sforzo di un’alacre studentessa desiderosa di iniziare un dottorato. Per me, era una grossa (e, per la me di ora, sconsiderata) scommessa.

Una scommessa che persi, perché non vinsi il concorso. (Come se non bastasse, la mattina dopo la sera che lo seppi persi il volo e non mi presentai al lavoro – seconda settimana appena – contrariando il mio nuovo capo francese.) Non sapevo cosa fare, mi sembrava che gli errori grossi fossero stati tutti a monte. La “cosa giusta” mi appariva così inconcepibile. Avevo fatto tutto quel che avevo fatto negli ultimi anni solo per conquistare la libertà di seguire le mie idee, e ora, così, avrei dovuto rinchiudermi in un tipo di sforzo che mi appassionava poco ma che al tempo stesso richiedeva passione, lontana dal vago e vagheggiato sogno di perseguire nel lavoro quotidiano idee che ritenevo importanti. Ma ora mi sto facendo suonare quasi troppo ragionevole. Perché è vero che c’è una certa ragionevolezza nell’idea che un progetto di dottorato richiede passione; è anche vero, però, che con un po’ di inventiva e intelligenza un progetto può essere adattato per includere un pochettino di qualsiasi idea, incluse le mie a cui ero così legata. Io però non vedevo compromessi, vedevo solo il bianco e il nero. Decisi di abbandonare il proposito, da me stessa annunciato e concordato, di partecipare a concorsi di altre università italiane, tradendo la fiducia accordatami dalla professoressa. Pensavo comunque di ritentare un round successivo del posto prestigioso iniziale previsto alcuni mesi dopo, come un’idea improvvisa avuta all’ultimo, un “perché no?”.

Non riuscii a centrare nemmeno questo semplicissimo obiettivo, per cui, in teoria, non avrei dovuto fare proprio niente se non proseguire sui miei passi. Ormai la sete di soddisfazione mentale si era impadronita di me e ne ero come posseduta. Odiavo il mio lavoro di analisi dati e odiavo la nuova tesi di laurea a cui stavo lavorando. Leggevo e digitavo svogliatamente, tutto procedeva a rilento, quel poco che realizzavo era di pessima qualità. Quando la mia relatrice se ne accorse e me lo fece notare, ebbi una crisi di nervi e le scoppiai a piangere in faccia (una delle scene più vergognose della mia vita), confessando infine questa tesi non mi piace e perciò non riesco a spremere manco una pagina decente. Lei, come sempre molto comprensiva, mi offrì di rimettermi in contatto con il professore che stava seguendo la mia tesi di prima, quella di quando avevo abbandonato l’università. Lui accettò di riprendermi, e in un paio di mesi scrissi un lavoro speculativo e abbastanza filosofico di un centinaio di cartelle. Aver scritto questa tesi e non l’altra mi squalificava in automatico dalla possibilità di concorrere per il secondo “round” del posto prestigioso. Poco male, restavano pochissime borse di studio ed ero fermamente convinta che non mi andava di “sacrificarmi” “ancora” per giocarmela.

La mia tesi di laurea avrebbe potuto, tuttavia, aprirmi qualche porta, quando riuscii a farla accettare a una conferenza a Londra. Peccato che non preparai abbastanza bene la presentazione e fu un fallimento a dir poco: intendevo leggere, ma mentre leggevo mi rendevo conto con un’evidenza ineluttabile di quanto il mio testo e i miei argomenti fossero privi di valore, inceppandomi così in continuazione, quasi per scusarmi, quasi per tentare invano e senza speranze di correggere quel che era troppo tardi o troppo presto per voler correggere. Con i miei tentennamenti e rimorsi fuori luogo sprecai il tempo dei legittimi, titolati studiosi presenti, che in seguito fecero calare un pietoso silenzio sull’accaduto. Non impressionai positivamente nessuno e non creai nessun contatto. Non si poteva non vedere d’altronde quanta superficialità cercasse con maldestria di celarsi dietro alle mie considerazioni, ne ero ben consapevole e me ne vergognavo. Avrei voluto così tanto avere la possibilità di dedicarmi a fondo a idee che ritenevo importanti, per molti mesi, magari per alcuni anni. Così sì che avrei potuto presentare il mio lavoro con sicurezza e orgoglio, e anche se ci fossero stati problemi nell’esposizione, il valore della ricerca avrebbe potuto trasparire e incuriosire. No, sicuramente non era un segnale che non ero tagliata per questo tipo di mestiere.

Ho abbandonato la Francia e mi sono trasferita, disoccupata e completamente priva di dignità, a casa dei miei genitori nel villaggio che odio e abbandonare il quale era la mia aspirazione principale a partire dai dieci anni e avrebbe dovuto restarlo, e ho fatto questo sacrificio per l’unico scopo per cui mi immolo nei miei sacrifici tra virgolette, cioè seguire le mie idee. Mi ero convinta che il modo migliore per farlo fosse vincere un dottorato negli Stati Uniti, per via della maggiore libertà e il tempo offerti agli studenti, e così avevo preparato e inviato una mezza dozzina di domande in cui, con termini goffi, altisonanti e generici, postulavo ancora un’altra opportunità. Attendendo e sapendo quanto improbabile sia un’accettazione, la mia attuale ricerca di un lavoro si scontra con l’inaffidabilità che il mio profilo sprizza da ogni snodo.

Nella mia vita personale mi sono macchiata di diversi misfatti, e una vittima di uno di questi, quando le chiedevo con insistenza di perdonarmi, mi disse tra gli altri insulti che ero una fallita lamentosa. E pensare che non aveva la più pallida idea di come la mia carriera di sarebbe svolta! Questo mi fa riflettere su come probabilmente molti semi dei miei fallimenti erano già ben piantati e annaffiati quando mi accingevo a mettermi alla prova con esiti così miserevoli. Forse, da quando ho smesso di comportarmi in modo poco civile con le persone, una ulteriore dose di inciviltà e mancanza di controllo si è riversata sul piano professionale. Forse invece, o anche, c’erano tante possibilità di imparare di più e meglio dall’esperienza e dalle persone intorno, possibilità che col mio passo imbranato e pesante ho calpestato e sepolto senza nemmeno scorgerle. Voglio scontarne ora la meritata pena.