Cercando di capire perché la mia esperienza universitaria sia andata così male

Cercando di capire con onestà perché la mia esperienza universitaria sia andata così male, mi trovo davanti un groviglio di aspirazioni, istituzioni, piani di studio, programmi d’esame, titoli, nomi e cognomi, righe lette, scorse e scritte, ma quel che invece manca, e quel che in fondo cerco, concetti, significati, sono rimasti confinati nel mondo mitico di prima, dei libri di testo e dei banchi di scuola — il mondo ingiallito e squalificato delle nozioni di base e generali, delle verifiche e delle interrogazioni. La domanda è allora perché non sono mai cresciuta? Non ho saputo crescere, non l’ho voluto, un misto dei due?

Continuare a cercare un senso in un caotico e cupo passato è perseveranza nell’errore, impresa salvifica o ultima àncora di un’identità ormai fossilizzata che si dissolverebbe se dovesse abbandonare senza meta gli ormeggi?

A volte, infatti, ipotizzo che il mio problema sia che appartengo a un’altra epoca e se, per consolarmi e legittimarmi, ogni tanto la penso come una coorte o un contesto storico-sociale, in realtà l’unica cosa di cui ho la certezza è che si tratta di un’epoca biografica, l’epoca dei libri di testo e dei banchi di scuola.

Quando la transizione tra questo tempo e il tempo dell’università avvenne non me ne resi conto, e non sospettai niente per molti anni. Esame dopo esame, approfondimento dopo approfondimento, seguendo norme captate nell’implicito di lodi e biasimi cercavo una vocazione, una passione, una specializzazione. Assumevo che fosse alla mia portata perché anche questo captavo nella combinazione di buoni voti, incoraggiamenti, storie di successo che popolavano i miei semestri.

Quindi, ogni volta che sbattevo contro un muro di disillusione e scoramento, davo per scontato che la strada giusta dovesse essere dietro al prossimo angolo, che una virata di qualche grado fosse quel che serviva e quel che bastava per imboccare la corrente a cui ero destinata. Scacco dopo scacco, raccontavo a me e agli altri di un sano amore per l’esplorazione, un’inquietudine figlia di curiosità e intraprendenza, e per qualche anno risultavo convincente. Mi crogiolavo in una vaga retorica brillante e audace senza mai notare l’aspetto patologico che andava prendendo la sottostante trama contorta, inconcludente e ciarlatana.

Non potevo vedere nient’altro che quella ricerca di quel successo universitario che sentivo sempre meno come un destino sempre di più come un dovuto, a me da me, da me a me. Mi impegnavo, percepivo che lo stavo facendo nel modo sbagliato, smettevo di impegnarmi e ottenevo lo stesso relativi, insipidi successi, che sortivano l’effetto di convincermi che applicando i miei talenti là dove anche la mia vocazione sarebbe stata, la soddisfazione e il senso di spiccare il volo non avrebbero potuto sottrarsi. Passai dalla storia della matematica alla filosofia teoretica alla sociologia e la comunicazione politica all’informatica.

Ripercorrendo nella mente il mio percorso dopo il suo inglorioso aborto, a volte l’ho interpretato in questi termini: la vocazione che cercavo non esisteva, era solo una giustificazione escogitata dalla pigrizia per spingere indefinitamente più in là nel futuro il momento in cui avrei iniziato a impegnarmi davvero. Oppure: i concetti che usavo per misurare le mie azioni erano ingenui ed estremi, più finezza etica e più capacità di compromesso mi avrebbero fatto raggiungere col tempo e con la giusta combinazione di tenacia e flessibilità un successo autentico perché riflettuto, sudato, insomma guadagnato. Eppure l’inganno, se di un inganno si trattava, era ben tenace, perché a ogni disillusione seguiva provvidenziale una nuova passione ben più forte di quanto ricordassi la precedente.