zanzara

Dammi il tuo braccio sicuro e distinto,
fatto affusolato, lungo e armonioso
da una natura nel tempo graziosa,
e fatto forte, flessibile e svelto
dal tuo volere che pare divino
da qui fuori, per noi piccoli insetti.
Voglio sentire la tua pelle umana
con le squame scure, e che il mio peso,
senza rilievo nel mondo complesso,
assurga all’altezza celeste del tuo,
a riposo le mie ali inutili
e stanche rubando un frammento
della tua evoluzione gloriosa.
Solo un basso istinto di parassita
mi è stato dato, per portare avanti
nello spazio-tempo senza certezze
le mie inconsistenti ambizioni.
Voglio il tuo corpo, voglio il tuo spirito,
voglio volare oltre ai baratri
di differenze di specie e di storia;
ma non ho un sentire e parole elevati,
non corpo bello né anima ricca,
ho solo il mio pungiglione molesto,
con cui non un millilitro d’amore
bensì qualche goccia fuori contesto
posso succhiarti, indesiderata,
prima che tu, irritato e deciso
mi ricacci lontano nel vento
con un colpo di mano veloce.

amori immorali

Ci hanno insegnato che esistono alcuni modi giusti di amare. Possiamo amare solo chi ci ama. Altrimenti, indici morali ci si puntano contro da ogni lato, ci indicano l’errore, la perversione, ci condannano al disprezzo, all’odio, alla tortura di sradicare quanto abbiamo di più caro dal nostro animo. Non è concepibile pensare alternative, non sembra possibile sfidare un tabù che si confonde con la struttura della natura umana e del reale. Uno spirito tanto mal fatto da perseverare nel volere ciò che non può essere voluto è sempre in lotta contro tutto e tutti, una lotta insensata, illegittima, sporca, impari, una lotta contro gli elementi, contro l’ordine delle cose. Ogni voce dice che non bisogna lottare, e perché continua? La lingua stessa, la lingua di un buonsenso millenario, lotta contro di lui e gli impedisce di articolare le sue ragioni. Non gli resta nessun sostegno eccetto la sua incrollabile certezza di amare, non come un diritto sacro, non come una qualità morale, solo come un nudo, chiaro, ostinato fatto davanti al quale tutto il resto del suo mondo si piega. Un fatto di per sé impotente a suscitare qualsiasi giustificazione, e tantomeno reazioni che lo capiscano, lo accettino, lo valorizzino, lo accolgano nei mondi degli altri. Un fatto solitario, muto, indifeso, rigettato da ogni coerenza, da ogni ragione. Eppure presente, radicato, duro. Un grumo torbido, brutto secondo ogni canone, malato secondo secondo ogni medicina, che grida vendetta e reclama a gran voce per sé la somma bellezza e il sommo valore. Perché della bellezza e del valore ha qualcosa, solo che, povero lui, è nato e ha attecchito dove non doveva, su un terreno proibito. Dal momento che questa lotta maledetta mi è stata appioppata dalla vita, dal momento che l’amore che porto è quanto di più profondo esista in me, non ho scelta, la conduco, e voglio condurla fino in fondo, voglio mettere in dubbio le infinite voci che mi condannano, gli infiniti fatti che mi confutano, gli infiniti princìpi in nome dei quali sono bandita. Voglio essere felice e anche se so che questa fortuna mi è preclusa voglio urlare il mio desiderio e voglio poter farlo senza che intorno a me ci si tappi le orecchie con pietoso disgusto. Voglio che sia possibile far capire agli altri il senso del mio amore, dei miei amori, voglio costruire questo senso e dargli un posto nel mondo, fosse anche un posto un po’ rintanato.

bilancio di una vita universitaria

Cinque anni fa iniziavo la mia esperienza alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ero piena di sollievo per aver superato un concorso che mi garantiva sussistenza e reputazione per i cinque anni successivi della mia vita universitaria e mi sollevava dalla responsabilità di scegliere tra qualità ed economicità della formazione. Ero piena di orgoglio per un risultato apparentemente molto meritorio acquisito apparentemente senza molto sforzo. Ero piena di entusiasmo per una disciplina che ancora non conoscevo e di cui mi accingevo a diventare studentessa, la filosofia, che era in fondo più che altro un entusiasmo per il mio modo di pensare. 
Alle persone che spietatamente chiedevano a me ragazzina quali fossero le mie ambizioni professionali, io non sapevo rispondere, perché dentro di me pensavo che l’unico risultato che desideravo era di ‘diventare un filosofo’, ma dirlo senza ironia era un tabù: solo un povero ingenuo esaltato avrebbe potuto affermare seriamente una cosa del genere, lasciavano trasparire le conversazioni. Così questo pensiero invece di venire esplicitato e ridimensionato nel dialogo è stato celato e separato dal mondo in una vana e sterile ricerca solitaria di soddisfazioni intellettuali nei meandri illuminati casualmente dalla mia curiosità sregolata di un corpo di conoscenze che ero e sono lontanissima dal padroneggiare anche in minima parte. Ho buttato molte ore e molti anni inseguendo sogni indeterminati di comprensione senza avere la minima idea di ciò che volevo comprendere. Ora penso, se solo qualcuno mi avesse dato una mano ad aprire gli occhi sull’insensatezza di questo andazzo. 
Eppure la Scuola Normale tutto era fuorché un luogo dove aprire gli occhi. Il principio guida nella gestione del giovane materiale umano ch’essa ingloba è molto vicino a quello che alcuni sociologi hanno chiamato l’effetto San Matteo: a chi più ha, più sarà dato. L’eccellenza è concepita come qualcosa di già formato, che bisogna raccogliere e isolare il più possibile per proteggerla dalle intemperie e dalle erbacce. Dove si vede brillare la luce di questa ‘eccellenza’, cioè dell’allineamento tra le performance di un giovane e le aspettative di uno o più rappresentanti dell’establishment universitario, si procede subito a scavare fossati simbolici tra essa e tutto il resto. Già dopo l’ammissione, i giovani ammessi sono separati dalla società dei loro coetanei in collegi dove una cultura elitista di esclusivismo si riproduce a ogni generazione. Essere “normalista” è generalmente e quasi ovviamente ritenuto condizione necessaria e sufficiente per possedere un intelletto superiore rispetto ai propri colleghi universitari. Poi, anche tra i normalisti, l’esoterico metro dell’eccellenza è usato per distribuire premi e punizioni senza possibilità di appello. Non esiste niente di così plebeo come una base comune di conoscenze, competenze e confronto. Regnano l’anarchia e la legge del più forte e il confine tra i meriti nelle pubbliche relazioni e quelli nello studio è alquanto sfumato. Nell’accademia che coltiva le materie umanistiche non esistono né una diffusa etica egualitaria né forme serie di controllo dei controllori, con il risultato che la maggior parte di questi ultimi non ha né sente alcun obbligo di trattare tutte e tutti allo stesso modo e di offrire a tutte a tutti le stesse o almeno analoghe opportunità. 
Così, coloro a cui manca l’eccellenza “ready-made” vivono in modo più o meno esplicito e sofferto ai margini come scarti. Ed è stato qui, con un piede dentro e uno fuori da un sistema che non mi ha mai davvero disconosciuta senza al tempo stesso avermi mai davvero riconosciuta, che ho cominciato a scoprire un approccio diverso agli studi. Un approccio che valorizza le differenze senza tradurle sempre in gerarchie, che prende il suo tempo e la sua libertà per sviluppare ogni conoscenza in ogni mente nel tempo e nel modo peculiare che l’alchimia tra le due richiede, che permette lo sviluppo relazioni paritarie di confronto tra esseri umani pensanti dove prima c’erano solo agoni e cortesie rituali. Mi auguro di portare questo approccio sempre con me, come mi auguro di poter continuare, in una vita che ormai inizio a intraprendere fuori dall’università e dal suo mondo, a cercare di ‘diventare un filosofo’, qualsiasi cosa ciò significhi. 
Dal punto di vista più strettamente umano invece, porterò sempre con me alcuni bei ricordi e relazioni con persone straordinarie, ma purtroppo anche il pesante fardello dell’odio, la sfiducia e il disprezzo che ho incontrato, maturato e contribuito a generare nel corso di anni di inesperta e goffa ricerca della felicità personale nell’ambiente della Scuola. Lo rifarei? No. Con il senno di poi avrei cercato, per usare un lessico darwiniano in linea con lo spirito dell’istituzione, un percorso di studi e di vita più “adatto al mio livello”; con il lessico di questa ultima settimana in cui ho riflettuto sugli anni passati, un percorso in un contesto meno simile alla reggia di Versailles e più simile a un’università.