Sento nominare le catacombe non ufficiali per la prima volta a una festa a casa di un amico [nel dodicesimo. Ero lì per cercare di levarmi dalla testa la mia ultima ossessione romantica, un ingegnere militare che compiaciutone assecondava la mia adorazione nonostante fosse fidanzato. Quando il mio amico mi spiega cosa sono le catacombe non ufficiali, sento subito una grande fascinazione.] Una rete di centinaia di chilometri di tunnel e cunicoli abbandonati sotto la rive gauche, niente luce e niente connessione, accedervi è vietato ma alcuni appassionati conoscono gli ingressi nascosti. Il mio amico è venuto a conoscenza di un ingresso e ha ottenuto una mappa; ha anche già esplorato qualche breve tratto.
Inizio a condividere con lui l’entusiasmo per questo luogo misterioso e pericoloso, e per l’opportunità rara di poterlo visitare. Ci mettiamo presto al lavoro per organizzare un’escursione. Cerco di includere anche l’ingegnere, che però appena scopre i rischi e le sanzioni si ritira. Spesso nella mia vita il conformismo e la prudenza tipici degli uomini sempre convinti di valere molto e avere molto da perdere dei quali tendo ad essere attratta hanno funto per me da ideale; un ideale tuttavia distorto e inibente, perché così poco in linea con il resto della mia personalità. Non questa volta, in cui complice l’individualismo suscitato dalla grande metropoli reagisco con un senso liberante di disprezzo per la sua meschinità che è una ribellione, un rifiuto del mio usuale assoggettamento ai canoni del suo mondo luminoso e arrogante di successo, bella forma e razionalità, l’accettazione orgogliosa di un’incompatibilità troppo a lungo vissuta come fallimento e sconfitta.
Il nostro primo tentativo di discesa è un flop. Abbiamo difficoltà a trovare l’ingresso ed essendoci sfuggita la strada corretta ne imbocchiamo una molto più pericolosa, che richiede di inerpicarsi su un cornicione sospeso su un baratro di una decina di metri, sotto la pioggia. Dopo pochi metri nelle gallerie con l’acqua alle caviglie, una ragazza della comitiva inizia a sentirsi molto spaventata e claustrofobica. Per non doverci separare, decidiamo di abbandonare l’impresa e tornare la settimana dopo senza di lei.
La settimana dopo, invece, tutto va come previsto, ed entriamo nella rete tutti ben equipaggiati, pronti e motivati. Abbiamo torce elettriche e pile, power banks, abiti adatti a bagnarsi, mappe e una bussola. Percorriamo un lungo tunnel rettilineo nei pressi del Boulevard Jourdan. Il tunnel è alto circa un paio di metri e largo circa un metro e mezzo, e si può marciare speditamente. L’unico ostacolo sono gli occasionali punti allagati: acqua limpida e inodore che sgorga dal sottosuolo, trasparente alla luce delle torce prima di essere resa torbida dalle polveri che solleviamo al nostro passaggio. Piccole stalattiti e altre formazioni calcaree ornano le pareti a tratti deturpate da graffiti frettolosi. Ci imbattiamo in oggetti inattesi come un vecchio generatore, una bicicletta e persino il relitto di un monopattino elettrico. Il mio amico indica piccole mensole e capitelli aperti qua e là nei muri e spiega che vi si possono trovare foglietti che informano su date e luoghi di feste sotterranee. Ne troviamo infatti uno, relativo a una festa passata. I tunnel laterali più bassi che si diramano da quello che stiamo percorrendo sono magnetiche, misteriose imboccature di complessi universi ripiegati.
Una specie di marchio di fabbrica delle gallerie è inciso e stampato a intervalli regolari: sigle alfanumeriche in cui il numero della costruzione è seguito dalle iniziali dell’inspecteur des carrières che ne ha diretto la realizzazione, e dall’anno di questa. L’Inspection générale des carrières è l’organo creato nel 1777 per mappare e consolidare la rete di tunnel in seguito a crolli che mettevano in pericolo gli abitanti al di sopra della rete. Nell’immagine, la B. indica Édouard Blavier, che fu ispettore tra il 1856 e il 1858. Gli anni che ho avuto occasione di vedere nelle mie esplorazioni vanno dagli anni Ottanta del Settecento alla fine dell’Ottocento. [altri esempi]
Un altro segno caratteristico sono le targhe o le iscrizioni con i nomi delle vie corrispondenti nella Parigi di sopra. A volte seguono anche lo stesso schema grafico, scritta bianca in campo blu, altre volte sono semplicemente bassorilievi colorati di nero. La mappa ne riporta la maggior parte, e sono estremamente utili per orientarsi; porto comunque sempre una bussola. I nomi di certe vie fanno un effetto particolare visti quaggiù, le vie che conosco, le vie dove hanno abitato o abitano amici, nemici, amori, le vie associate a momenti belli, brutti o tutt’e due insieme, le vie famose, le vie di cui ho letto online. I ricordi e le associazioni affiorano trasfigurati, connessioni al tempo stesso intime e distanti come la prossimità a quei luoghi, vicinanza fuori dagli schemi prevedibili della vicinanza, vicinanza a tradimento, alle spalle, insospettata, carsica. La sofferenza e la gioia passate sono gemme di senso colorate e preziose riportate alla luce in queste antiche gallerie nelle viscere della capitale. E non manca un senso di rivalsa, per averle ritrovate dove nessuno dei loro co-protagonisti ha mai saputo, osato, finanche immaginato di recarsi, per aver raccolto ricordi in, di e da un mondo che per loro nemmeno esiste.
L’unica luce è quella delle nostre torce elettriche, gli unici suoni le nostre voci e la loro eco, ogni tanto qualche altra comitiva di esploratori, a volte con radio e musica per creare atmosfera. Ogni tanto ci fermiamo impressionati a rumori e tremori probabilmente ascrivibili al passaggio non distante della metropolitana. Mi aspettavo, nel buio e nell’isolamento completo rispetto all’esterno — i nostri telefoni sono infatti irraggiungibili — , di esperire sentimenti dal tono meditativo, mi aspettavo una sorta di misticismo e purificante ritorno in sé, che tuttavia non ho mai provato. Con la comitiva di parla, si scherza, si canta anche: prevale sempre un atteggiamento avventuroso, intraprendente e cameratistico. Portiamo con noi qualcosa da bere e da mangiare, e nelle pause ci fermiamo e riguadagnamo le energie per lo più con qualche birra. Il tempo passa molto velocemente quando si cammina nelle catacombe: il mio amico sostiene che sia un effetto dell’assenza di luce naturale, sfruttato anche nei supermercati, in genere infatti privi di finestre sull’esterno, per far sì che vi si resti più a lungo. Non mi è mai successo di sentirmi stanca di restare nelle catacombe e di sentire un desiderio impellente di uscire; anzi, ogni volta, al momento di risalire, dopo escursioni dalla durata tra le 5 e le 8 ore, avrei voluto prolungare l’esperienza.
Arrivati all’altezza di Porte d’Orleans, ci dirigiamo verso nord seguendo più o meno l’Avenue du Général Leclerc. Il mio amico ci guida attraverso la stretta galerie des cables, a una specie di “fonte battesimale”, sotto a rue d’Alésia, verso Place Victor et Hélène Basch. Il luogo è descritto “ufficialmente” come “puits à eau avec margelle”. Si tratta infatti di un pozzo, profondo circa 4 metri, pieno fino all’orlo di acqua limpida, situato in un’apertura laterale della galleria e separato dal tracciato principale da un basso muretto. Il mio amico suggerisce che ci “battezziamo” tuffandoci nel pozzo, e dà per primo l’esempio. Accende dei lumini e li posiziona nei pressi del pozzo per creare un’atmosfera arcaica e ieratica. “Che cazzata”, penso. Ma..
Tutti i ragazzi della comitiva lo seguono, e per ultima mi cimento anche io. Mi tuffo e cado di peso fino a toccare il fondo, e ci vuole qualche secondo prima di riemergere. Una volta a galla sono disorientata e vado a sbattere la testa contro una parete a lato del pozzo. L’acqua è molto fredda, ma ci asciughiamo in fretta e la sensazione diventa presto una di benessere. La temperatura nelle catacombe si assesta infatti intorno ai 18 gradi ed è costante tutto l’anno, motivo per cui, tra l’altro, diverse sale hanno anche ricoperto la funzione di cantine per la conservazione di birra, vino, liquori e altri prodotti.
Proseguiamo. Il nostro obiettivo è raggiungere la sala chiamata “La plage”, che era appunto un’antica birreria. La plage è uno dei luoghi più famosi delle catacombe, e inoltre uno dei più facilmente accessibili. Non la troviamo subito, e ci ritroviamo a vagare per un po’ persi tra i meandri della vicina Salle Marie Rose, un complesso di stanze sotto l’omonima via, ma incontriamo presto altri esploratori ci spiegano l’errore. Finalmente raggiungiamo la plage. Ci accoglie una grezza statua a forma di muscoloso bipede con un muso da rana in posa di reggere il soffitto. è coperta di graffiti come quasi tutte le pareti e i pilastri. La plage è abbastanza vasta e labirintica, ma dopo non molto appare davanti a noi quello che è probabilmente lo scorcio più celebre delle catacombe non ufficiali, il grande graffiti che, su una parete della plage, riproduce “La Grande Vague de Kanagawa” di Hokusai. Intorno, addossato alle tre pareti che racchiudono lo spazio, un piccolo rialzo funge da panca dove i visitatori si siedono per bere una birra, fumare, consultare le mappe, dare e ascoltare spiegazioni, conversare, fare conoscenza con altri gruppi, ascoltare musica. Questo è uno dei principali luoghi di ritrovo per i cataphiles, i frequentatori abituali delle catacombe, ma anche per i visitatori occasionali. [scene]
Anche il resto della plage è un luogo affascinante: il soffitto è più alto che nelle gallerie, e pilastri di varie misure e porzioni di muro lo sostengono e spartiscono in vari spazi comunicanti. Immagini della cultura pop si affiancano a simboli misteriosi per iniziati e scritte.
Il pavimento simile a terra battuta o a melma solidificata, è un inizio, o un resto, di riempimento: come ci spiega una cataphile, negli anni Ottanta si era deciso di eliminare questo spazio si era proceduto a versare sabbia di riempimento che ne ha coperto e innalzato l’originario pavimento, dalla quale riceve il suo attuale nome. La ragazza ci fa notare un letto sepolto, di cui emerge solo la parte superiore della spalliera. In certi punti, la melma è ancora molle e viscosa, e crea delle vere e proprie piccole sabbie mobili o degli strati appiccicosi su cui è difficile camminare senza che le scarpe rimangano appiccicate. In altri punti uno strato sottile di sabbie analoghe dà luogo a superfici scivolosissime dove bisogna camminare con estrema cautela. Ma non è come il fango che si trova all’aria aperta, ha l’aria pulita e interessante di un materiale sintetico che invita a giocare e sperimentare.
Dalla plage si dipartono le strade che dalla zona nei dintorni di rue Sarrette portano da un lato verso sud, all’area nei pressi del parco di Montsouris, da cui siamo venuti, e dall’altro verso nord, al resto della rete e con le sue innumerevoli ulteriori “attrazioni”. Per la nostra prima visita decidiamo di fermarci qui e di fare ritorno all’uscita. [scena]
Dopo circa un mese, tuttavia, organizziamo una seconda escursione con un obiettivo un po’ più ambizioso. Arriviamo alla plage speditamente attraverso quella che diventa la nostra strada standard, passando sotto alla rue du Père-Corentin, che nel sottosuolo porta ancora in parte il nome originario di Rue de la Voie Verte, e attraverso la Chatière de Sable. Si chiamano chatière i passaggi stretti dove è necessario chinarsi, a volta accovacciarsi e persino strisciare. La chatière de sable è abbastanza larga, ma il tratto per cui bisogna muoversi chinati non è brevissimo. Il nome di chatière de sable è particolarmente calzante, vista la colorazione ocra e la consistenza sabbiosa dei materiali di riempimento che ne ricoprono la camminata e le cui colate fanno capolino da aperture laterali tappate e degradano sui lati come dune. A metà si apre una sorta di spiazzo basso e largo dove ci fermiamo per riposare. Qui c’è anche uno dei molti pozzi che collegano le catacombe alla superficie. Siamo tra i 20 e i 30 metri di profondità, e il pozzo si presenta come un buco nero nel soffitto di cui non si vede il fondo. Questo non ha scale, alcuni sono dotati di pioli di ferro arrugginito fissati alle due estremità nella pietra. La maggior parte, tuttavia, sono sigillati in maniera definitiva, saldati o ricoperti dall’asfalto o dal cemento.
Alla plage la nostra comitiva si disgrega, ma abbiamo tutti in mente la stessa destinazione: il carrefour des morts. Sappiamo che in questo sito si possono osservare e, volendo, toccare mucchi di antiche ossa, in una versione disordinata e dimessa dei celebri ossari nelle catacombe ufficiali. [io prendo per la prima volta la guida]
Appena usciti dalla plage e incamminatici verso nord, propongo ai miei due compagni di viaggio di fare una deviazione per visitare la grande Chambre Egyptienne, o Cellier. Vi accediamo dal lato est attraverso una stretta Chatière, che si presenta come un’apertura nella parte superiore del muro sinistro della galleria che stiamo percorrendo in direzione nord. Questo complesso di stanze, sempre nella zona Sarrette, è molto esteso e intricato, e ricchissimo di ambienti diversi e disegni e altre forme di decorazione originali, inquietanti e sorprendenti. Usato come birreria e cantina dalla fine dell’Ottocento e collegato al resto della rete negli anni Ottanta, l’intensa e fantasiosa attività profusa dai cataphiles nel decorarlo salta subito all’occhio. Esplorandolo troviamo un riscontro del nome in un gruppo di grandi graffiti che rappresentano personaggi e situazioni ispirati all’Egitto dei faraoni. Tentativi di visita ordinata seguendo le pareti sono vanificati dalla loro natura articolata, frastagliata e molteplice. Ci imbattiamo nell’inquietante e affascinante “Salle des Reflets”, i cui muri sono tempestati di frammenti di specchio e candelabri reggono pezzi di bambole. Scopriamo altri aspetti e dettagli curiosi di questo complesso ritornandoci in una delle escursioni seguenti, come un modellino del pulcino Calimero appeso al soffitto presso la chatière a est, una piccola scala di pietra in cima alla quale in un angolo raccolto sono depositati dei libri, scale a chiocciola che si interrompono nel vuoto, una strettissima chatière che porta in una sala dalle altissime volte che sembra una cappella, assi metallici trasversali che accennano alla cantina di un tempo.
Ci lasciamo alle spalle le vivaci e variopinte sale del Quartier Sarrette e Proseguiamo verso nord seguendo rue Sarrette e poi rue de la Tombe d’Issoire, fino a un grande crocevia in cui incrociamo un asse ovest-est formato da gallerie spaziose, su cui veglia un’enorme testa grigio-marrone con un naso prominente, pupille bianche e una corona di graffiti, modellata dall’imponente massa di un sostegno. [Qui incontriamo un cataphile che ci spiega… Passa un gruppo di cataphiles con una lampada a olio…]
Imbocchiamo la via verso ovest, che ci conduce tra gli archi di un antico corso dell’Aqueduc d’Arcueil. Passiamo accanto alla sezione della rete separata e dedicata alle visite turistiche degli ossari ufficiali, uno spazio dal significato così diverso eppure uniforme a quello dove siamo e tagliato fuori solo dai tratti di inchiostro che stanno per muri e colate di cemento. Lo costeggiamo da ovest, sotto a rue Sophie Germain e ad Avenue d’Orleans, prima di allontanarci lungo rue Daguerre, costeggiando le gallerie e sale che furono usate come rifugio e quartier generale della resistenza parigina nella Parigi occupata nell’agosto 1944, oggi parte del Musée de la Libération. Pare che si possa arrivare fino a una porta sigillata all’altro lato della quale si sviluppa l’itinerario nell’ossario ufficiale. Penso che mi sarebbe piaciuto arrivarci, per vederla in seguito dall’altro lato durante una visita convenzionale.
Seguiamo rue Boulard verso nord e camminiamo, senza rendercene conto, sotto al Cimitero di Montparnasse. In questa zona i tunnel si sviluppano su due livelli: quello su cui siamo arrivati, e un livello inferiore. Sul livello superiore poche gallerie ortogonali si intersecano e convergono nella rotonda detta Carrefour des Morts, similmente a come un sentiero ad anello segna il centro del celebre cimitero in superficie. Quest’ultimo ha il suo gemello speculare sotterraneo poco a est del Carrefour des Morts, un’altra rotonda sulla cui parete è stato recentemente realizzato un graffiti rappresentante l’ex-presidente Chirac, in seguito alla sua morte e sepoltura pochi metri più in alto. Al centro del Carrefour des mort un’apertura in alto nel muro cilindrico che chiude lo spazio centrale conduce a un piccolo ossario nel corridoio circolare. Per lo più ossa lunghe e frammenti sono sparsi per terra insieme a mattoni e lastre, in mucchietti più alti ai lati dove forse un tempo erano stati accatastati, e in pochi bassi, irregolari resti di formazioni trasversali. Una sottile vernice di melma dà alla loro superficie gli stessi colore e consistenza che ha quella della pietra tutt’intorno. L’effetto non è di sporcizia, ma pare che il sobrio e neutro velo di materiali inorganici cospiri con l’oscurità per preservare l’armonia cromatica e con essa la pace del sito. Un teschio solitario trovato non molto distante viene riportato e deposto nel corridoio al centro del Carrefour per deliberazione comune. Le ossa gettate e ammassate qui venivano dalle fosse comuni, quelle di fianco al cimitero di Montparnasse quando fu ristrutturato verso metà ottocento, quelle per cui non c’era più spazio nell’ossario municipale ufficiale, quelle delle numerose vittime delle epidemie di colera dell’inizio del diciannovesimo secolo. Venti metri e qualche decina di caratteri in meno, la loro distanza dalle celebrità e i facoltosi del piano di sopra, la loro distanza dalla storia.
è per accaparrare alla mia vita un frammento di ufficialità che poco dopo volo in Italia. Provo a laurearmi finalmente, con molto ritardo, discutendo una tesi penosa messa insieme in poche settimane di canicule, sbronze e romanticismi vani. Parla di filosofia sociale e social media: ho saccheggiato i concetti che più mi “ispiravano” da un po’ di letture disordinate e casuali, li ho ammucchiati insieme e ricoperti con una patina posticcia di coerenza teorica e ricostruzione storica accennate, superficiali, apparenti. Ma, si sa, un organismo massiccio, pesante e formale come una grande università non va tanto per il sottile, non ha certo tempo di stanare ogni piccolo impostore, soprattutto se la laurea in questione non apre nessuna porta verso nessun “lavoro serio”. Minuscola di fronte al potere immenso della commissione e del suo presidente di graziarmi e donarmi un’altra possibilità o suggellare il fallimento definitivo di dieci anni di confusione, incostanza, pressapochismo in cui ansimavano soffocando belle ambizioni e amore per lo studio, per entrare infine in coma sotto ai colpi di ossessioni non domate e le loro conseguenze, l’unica forma in cui sono condannata a esperire l’amore, del sacrificio di tutto per una causa persa, della perdita della salute fisica e mentale, della terapia psichiatrica. Ritualmente avevo preparato con cura una presentazione, tutte le mie forze erano concentrate verso l’interpretazione del ruolo della brava studentessa che si è impegnata, che ha sudato, che merita, che quel che potrete sentire e vedere è solo la punta dell’iceberg di un lavoro molto più grande e profondo; sapendo che l’esibizione oltre ogni dubbio di dedizione e investimento spesso fa scambiare la superficialità per ingenuità o magari persino per complessità. L’incantesimo funziona forse, forse è solo un “tanto vale, per quel che vale”, e mi conferiscono la laurea. Un brivido di gioia mi attraversa per quell’immeritato, disprezzato, non scontato diploma fuoricorso; per un attimo riesco a dimenticare le sue macchie, le mie macchie che lui non cancella, il confronto impietoso con i tempi standard delle istituzioni e quelli dei miei compagni di corso e dei miei amici. La prospettiva della missione compiuta, la concentrazione di tutte le energie e l’attenzione su quell’unico obiettivo delle ultime settimane mi ripaga con la sua peculiare felicità. Ho messo una pezza sul mio profilo in sfacelo, non c’è molto da festeggiare, solo il senso di aver evitato, per un soffio, il peggio. Se non fossi riuscita a laurearmi a questo appello, avrei dovuto rinunciare. I miei genitori sono al settimo cielo, non ci speravano più. Per loro la laurea è comunque una gran cosa: anche loro come l’università, sebbene dall’altra parte dello spettro della legittimità, del potere e della sofisticatezza, non si curano delle sottigliezze, del dietro le quinte, del vuoto che la retorica cela. Il loro ignorante orgoglio e quello, cortese e affezionato, di alcuni amici a cui alla fine mi sono rassegnata a confidare della laurea, sono contagiosi e mi fanno sentire per un po’ esultante e fiera.
Non so ancora, però, se e come saprò sfruttare questa ennesima seconda chance. Sogno di fare un dottorato, ma non ho idee di ricerca né la stima e fiducia di alcun accademico. Ho perso un lavoro dopo l’altro per mancanza di motivazione, pigrizia, inettitudine, alcolismo. L’avversione viscerale che ho sviluppato per l’informatica mi ha inimicato gli unici che sarebbero stati disposti a pagarmi. La notte prima della discussione non ho dormito, pensieri d’amore intrufolatisi nella mia mente hanno disinnescato il sonno ma ho saputo prontamente sfruttare quelle ore per perfezionare la mia esposizione dell’indomani e al mattino mi sono dopata con una Red Bull. Dopo, ignoro i richiami del sonno e del buon senso per godermi il mio piccolo trionfo bevendo prima alla festa di laurea di un compagno più giovane, poi al pranzo in mio onore con famiglia e amici, con il risultato che mi presento ubriaca a un ricevimento accordatomi da una giovane professoressa in carriera da cui speravo di trarre aiuto e supporto per i miei fumosi piani di ricerca. La ratio era che un po’ di alcol mi avrebbe resa più sciolta, sicura e in grado quindi di fare con dignità quel che da sobria mi riesce così pauroso, difficile e goffo, comunicare a tu per tu con qualcuno molto superiore a me per status. Questa tattica il più delle volte funziona, ma sottovaluto la differenza tra l’alcol dosato con precisione nella solitudine della mia stanza fino a ottenere esattamente l’effetto desiderato, e i molti bicchieri bevuti senza nemmeno contare intorno a tavoli festanti. Insomma, esagero e insieme al troppo vino faccio sparire senza rimedio anche quella che forse sarebbe stata un’ottima opportunità di avvicinarmi all’obiettivo che più ho a cuore. Ma sono troppo stanca e rintronata persino per i sensi di colpa, che in riferimento a questo episodio cominceranno a emergere con molte settimane di ritardo. Con il cervello impastato dal sonno continuo a prendere appuntamenti con amici e conoscenti, bere, raccontare spezzoni inconsistenti mio impasse esistenziale, girare come una trottola per le arcinote vie medievali della cittadina facendo acquisti e incontri casuali fino a tarda notte. Già il giorno dopo mi sembra di essere lì da troppo tempo, dentro a un passato concluso che mi espelle, dove non ho più il diritto di restare, che anzi il solo fatto di esservi rimasta legata così a lungo è un’onta e ogni ora ulteriore di indugio è un’ora di disonore. Organizzo un’escursione nelle Catacombe per l’indomani. Il sentimento è così forte che né la voglia di riposare né uno sciopero nazionale dei treni possono trattenermi, e spendo tutto il denaro regalatomi per la laurea per imbarcarmi sul prossimo volo per Parigi.
Gli arcani, taciti, onnipotenti computi di età, salario e relazioni che mi condannano senza appello in ogni bar, ufficio o social network sbiadiscono man mano che dalla mia stanza affittata a nero mi muovo verso l’entrata dei tunnel. A nessuno laggiù importa quanti anni abbiamo, che lavoro facciamo: a volte ce lo diciamo, ma sono trattate come informazioni senza importanza, come se si parlasse del colore preferito o di cosa si ha mangiato a colazione. Persino il mio corpo un po’ sovrappeso, l’irsutismo e la goffaggine di trucco e pettinatura perdono salienza nella luce scarsa, localizzata e funzionale delle torce. Ci immergiamo nell’oscurità spogliandoci dei nostri attributi di carta e delle nostre aure di voci, siamo nudi punti di calore su una mappa di pietra. Sagome pressappoco uguali per grandezza e dignità, ci distinguono solo le nostre coordinate cangianti: diventiamo più astratti, diventiamo più umani.
Raggiunto il Carrefour des Morts, proseguiamo verso nord seguendo il tracciato dei sentieri del cimitero di Montparnasse fino a raggiungere Boulevard Edgar Quinet, poi rue Huygens, dirigendoci verso il grande bunker tedesco della seconda guerra mondiale, all’estremità nord della rete. Avvicinandoci diventiamo disorientati e non capiamo quando esattamente ci siamo arrivati. Molti membri della comitiva sono stanchi o hanno fretta. Marciamo spediti, di svolta in svolta, la mia lenta accuratezza incompatibile ormai con il ritmo generale, e procediamo di pancia, d’istinto, seguendo i punti cardinali e avvalendoci della supposta expertise di un membro del gruppo professionista dello snorkelling.
Nonostante tutto, arriviamo alla meta: ce ne rendiamo conto vedendo le pesanti porte blindate e le scritte in tedesco sulle pareti, “Rauchen verboten”, “Hinterhof”. Delle frecce rosse, nere e blu indicano le vie d’uscita di allora. Una porta è sfondata come da un’esplosione, e congetturiamo che sia stata fatta saltare in aria al momento della presa del bunker. Restano alcuni arredamenti e accessori: in una stanza troviamo una piccola sedia semi-distrutta ma ancora funzionale accanto a quelli che sembrano apparecchi telefonici o radiofonici, due gusci metallici sventrati e saccheggiati ma contenenti ancora frammenti di ingranaggi, fili e mensoline. In un’altra sala, troviamo un bagno chimico, un bidone con un buco in un piccolo spazio isolato. Ci sono molti spazi così, anche se per la maggior parte vuoti, che evocano l’uso abitativo di questi sotterranei, insieme ai vecchi e spezzati fili della corrente. Saliamo una rampa di scale spaziosa con tanto di corrimano, di quelle che conducevano agli edifici adibiti dai tedeschi a quartier generale, nell’area del Senato, del Lycée Montaigne e della facoltà di farmacia, per arrivare di fronte a un impenetrabile portone sigillato. Proseguendo verso sud, muri e file di piloni massicci e paralleli creano corridoi stretti e spogli come in stalle di pietra; ci avventuriamo per un po’ lungo un corridoio perpendicolare e ci perdiamo brevemente in quel labirinto dalla pesante e rozza simmetria. Non sappiamo bene fino a quando siamo ancora nel bunker e quando ne siamo usciti, mentre poco a poco la regolarità massiccia lascia il posto ai soliti tunnel terrosi e sinuosi. Non riuscendo a capire bene dove siamo sbucati, e resi riluttanti di fronte ad avventure nell’ignoto dalla fretta di alcuni, ritorniamo indietro da dove siamo venuti, attardandoci ancora un po’ a osservare e fotografare le poche vestigia del passato del bunker, a sbirciare nelle nicchie e attraverso le porte superstiti socchiuse.
Prima di rimprendere spediti il viaggio di ritorno di diversi chilometri, ci fermiamo a mangiare un boccone e bere un bicchiere di whisky in una piccola ed elegante saletta in prossimità dell’accesso ovest del bunker. Un bel candeliere decorato con motivi vegetali pende dal soffitto, e dei bassi cilindri in muratura, come pozzi o piccoli anfiteartri, sembrano i graziosi tavolini di un bistrot. Ci sediamo appartati in un angolo intorno a una lastra di pietra, su una sorta di panca anch’essa di pietra che la circonda, addossata a una parte della parete che sembra il fianco rugoso di una montagna, in contrasto con il soffitto liscissimo. Mentre beviamo, un rumore proveniente da appena oltre l’ingresso della sala ci spaventa: è un rumore come di una borsa di plastica pestata o mossa. Ma non c’è nessuno oltre a noi: al fruscio non seguono passi né voci. Immaginiamo l’avvicinamento furtivo di un malintenzionato, scherziamo sul soprannaturale, il mio amico cerca di sorprendere il colpevole con uno scatto di corsa verso l’origine del suono, senza successo, alla fine concludiamo che deve trattarsi di un topo o qualche altro animale del genere. Finito lo spuntino, spegniamo i lumini che ormai il mio amico ha preso l’abitudine di accendere per illumiunare tutti i nostri momenti conviviali laggiù, raccogliamo tutti gli imballaggi e gli avanzi e ci rimettiamo in cammino.
Ricordando i ragazzi che abbiamo visto diverse volte inoltrarsi in tunnel fuori dal tracciato principale, specialmente sotto al parco di Montsouris, con casse e radio con musica d’atmosfera, decidiamo di provare anche noi a rendere la marcia più piacevole e leggere con della musica adatta. Riscuote successo un album che ho nel telefono con varie sinfonie di Beethoven, che ascoltiamo a ripetizione per tutta al durata del cammino. Troviamo che le note solenni e marziali della quinta sinfonia risuonino in modo particolare con la nostra marcia nella profindità di quell’immenso, antico alveare di pietra. Camminiamo molto velocemente e ci sentiamo tutti molto di buon umore, chi è davanti avvisa chi è dietro di buche, dislivelli e soprattutto soffitti bassi, su cui è molto facile sbattere la testa. Gli avvertimenti rimbalzano lungo la fila. Arriviamo all’uscita in men che non si dica, sia perché siamo stati oggettivamente veloci, sia perché il tempo è volato nel nostro gioioso ed energico marciare. Una volta riemersi è notte, siamo affamati, e non torniamo a casa prima di un sostanzioso pasto da Subway e qualche birra.
Dopo meno di due settimane, torniamo con l’obiettivo di esplorare l’area est del GRS, dove non siamo ancora mai stati nonostante vi si trovino alcuni tra i landmark più noti come la grande Salle Z e la tomba di Philibert Aspairt, il nume tutelare dei frequentatori delle catacombe. Ci siamo organizzati per restare a lungo, non abbiamo fretta e indugiamo nella Plage e nel Cellier per scoprirne nuovi angoli e mostrarli ad alcuni nuovi membri della comitiva. Arrivati al solenne crocevia della grande testa scolpita proseguiamo lungo il corso dell’acquedotto verso est, per la prima volta. Andando avanti notiamo tunnel più friabili e terrosi, e ci imbattiamo in una piantina solitaria chissà come, chissà perché spuntata in quella crepa inospitale, in quello spazio buio e chiuso completamente minerale fino a un paio di secoli fa. Camminiamo sotto Rue Broussais, e quando compare un curioso muro che divide la nostra strada come in due corsie facciamo una deviazione in un piccolo complesso di sale che si apre a partire da quella a est. La porta è così stretta che lasciamo gli zaini all’entrata, e ci aggiriamo per le piccole Salle des Dinosaurs, rappresentati su una parete, e Salle Zlard, chiamata così per via di una placca mentitrice che informa di essere nella inesistente Rue Zlard, e in cui abbiamo letto che si usasse attaccare la propria amaca per riposarsi un po’. Incrociamo rue Dareau e continuiamo verso nord est, cercando con qualche difficoltà di identificare una roccia scolpita a forma di testa d’orso che orna questo tratto. Pieghiamo a ovest, lungo un tratto del Boulevard Saint-Jacques, fino a incrociare Rue (du Faubourg) Saint-Jacques e trovarci davanti al suo asse sud-ovest nord-est. Quest’ultima è la direzione del nostro itinerario; ma dall’altra parte la galleria smette di essere tunnel o passaggio, trasformata in galleria d’arte da una serie impressionante di murales di altissima qualità. Le pareti illuminate dalle torce si aprono su cicli di scene e personaggi variopinti e ci troviamo a camminare estasiati e stupiti tra minatori, chiostri, supereroi, operai, cavalli in corsa, facciate di palazzi, interni di case, la cattedrale di Notre-Dame, in questo paradossale, incantato museo d’arti visive senza luci, a venti metri dal cielo. Si chiama Galerie des promos. Promos si riferisce alle promozioni all’Ecole des Mines, celebrate con graffiti in questa galleria dalla metà del diciannovesimo secolo. La qualità dei graffiti è diventata quella di veri e propri affreschi negli ultimi decenni, e pare che la traduzione perduri tutt’ora e ogni anno venga scelto un tema tradotto poi in immagini sulle pareti della galleria da alcuni studenti. All’estremità sud la galleria è murata, probabilmente per via della sua vicinanza agli ossari ufficiali.
Dopo uno sguardo veloce al piccolo parallelepipedo della Salle des Repos nei pressi del crocevia, proseguiamo verso nord est e visitiamo un Cabinet Minéralogique, una stanza in cui piani e mensole ora spogli fungevano da espositori di campioni minerali e altre curiosità, e al centro una costruzione in pietra a gradini illustrava la stratificazione del sottosuolo parigino. Su una placca intagliata alla sommità di quest’ultima si legge: «Bancs de pierre de cette carrière / De la surface de la terre au banc de roche 13 mètres – 40 pieds».
“Au XIXe siècle, lorsque la confortation des carrières souterraines de Paris bat son plein, l’inspecteur général des carrières Héricart de Thury a l’idée de créer des cabinets de curiosités spécifiques aux souterrains de la capitale. Organisés de la même façon que ceux de la surface, ces cabinets souterrains exposent des collections de minéraux, d’ossements ou d’échantillons des couches géologiques issues du Lutétien. Ils seront construits avec un soin tout particulier, bien qu’ils soient dépourvus d’utilité pratique du point de vue du travail mené en carrière. En effet, ces cabinets symbolisent un certain souci du savoir et des sciences, qu’ils montrent d’une façon théâtrale et volontiers néoclassique. Chacun d’entre eux porte le nom d’un inspecteur des carrières. Sept cabinets vont ainsi être aménagés.” [link wiki]
Questo Cabinet Minéralogique, che fu costruito dal “conducteur des ateliers Saint-Jacques” Gambier-Major (inizio del diciannovesimo secolo), è l’unico a essere attualmente integro e accessibile.
Continuiamo a seguire rue Saint Jacques verso nord, per un lungo tratto rettilineo che ci porta nei pressi di molti punti di interesse come la cripta, un livello inferiore in muratura con raffinati bassorilievi, e i sotterranei dell’Observatoire de Paris, costruito alla fine del diciassettesimo secolo sopra a gallerie risalenti al medioevo e consolidate per l’occasione che in seguito furono usate a fini scientifici e come rifugio durante la Seconda Guerra Mondiale, che purtroppo tuttavia non riusciamo a raggiungere. Inaccessibili per noi sono anche le medievali Carrières des Capucins che superiamo poco dopo, essendo incorporate in un museo. Presto arriviamo all’altezza dei Souterrains du Val de Grace, l’intricato e vasto groviglio di gallerie e sale di cui fa parte l’immensa Salle Z.
Perdo presto l’orientamento mentre il mio amico ci guida attraverso una stretta e sabbiosa biforcazione in pendenza, c’è già stato e sa che bisogna svoltare in quel punto perché la via segnata sulla mappa è stata bloccata. Ci congediamo dal liscio rettilineo di Rue Saint-Jacques e ci inoltriamo in una imprevedibile e sfidante varietà di possibili direzioni, terreni, altezze. Ponderare ogni svolta non sembra avere più senso, e ci lasciamo trasportare dalla curiosità e da un senso istintivo dello spazio. Passiamo e ripassiamo per salette con nomi, storie e usi che non sappiamo decifrare, saliamo e scendiamo scale svincolate da piani, e raccogliamo le rare scritte delle targhe sulle pareti come le briciole di Hansel e Gretel per avvicinarci alla Salle Z.
Ci arriviamo infine, dopo essere passati per la cognitivamente rassicurante Salle des 3 chaises, venendo dalla direzione di Rue d’Ulm; scendiamo una scala prima salita invano, attraversiamo uno stretto e alto corridoio e l’enorme sala si apre davanti a noi come una valle in una notte senza stelle. Capiamo di esserci perché non si vede il fondo del vuoto davanti a noi, e il soffitto, sorretto da una foresta di imponenti pilastri in muratura, è alto come quello di un palazzo. Come per tutta l’area circostante, dobbiamo queste architetture principalmente allo sfruttamento del suolo medievale e alla consolidazione intrapresa dall’architetto François Mansart per le costruzioni nel quartiere Val de Grace affidategli sotto Luigi XIV. Ci inoltriamo emozionati sotto le volte, da alcune delle quali gocciola acqua maleodorante, che forma in alcuni punti pozzanghere e rigagnoli melmosi. Seguendo un percorso tortuoso cercando di evitarli e attirati da ogni nuova propaggine della sala, raggiungiamo infine all’altra estremità un confortevole angolo in cui un lastrone di pietra circondato da altri pezzi invita a sedervisi intorno come a un tavolo. Accendiamo i nostri lumini e condividiamo un po’ di pane e formaggio, del vino e un energy drink per pranzo, divertendoci a immaginare come devono essere le feste di cataphiles che abbiamo sentito che sono o erano solite svolgersi qui.
Riposati e sazi dopo non molto ci rimettiamo in cammino, per raggiungere la tomba di Philibert Aspairt. Non è lontana: ritornati su Rue Saint Jacques proseguiamo per un po’ ancora verso nord, poi svoltiamo a ovest, e imbocchiamo un meandro a gomito un po’ disorientante e molto scuro e sobrio, per trovare infine la stele commemorativa in una nicchia quadrangolare sulla nostra sinistra. Si sa poco di certo su Philibert Aspairt. Custode dell’ospizio del Val de Grace, nato nel 1732, discese nelle gallerie nell’autunno 1793; probabilmente vi si perse e il suo corpo fu rinvenuto 11 anni dopo, nella primavera del 1804, e sepolto nel luogo del ritrovamento (sotto l’attuale Rue Henri-Barbusse, allora Rue d’Enfer) — come recita l’epitaffio:
« À la mémoire de Philibert Aspairt perdu dans cette carrière le III (3) Novbre MDCCXCIII (1793) retrouvé onze ans après et inhumé en la même place le XXX (30) avril MDCCCIV (1804) »
Si racconta che cercasse di appropriarsi illecitamente di tesori o di mettere le mani sui magazzini di chartreuse prodotta dai monaci certosini, situati sotto al Jardin du Luxembourg. Oggi è stato assunto nel pantheon delle catacombe nel ruolo di una sorta di santo protettore dei cataphiles, e pare che come i santi cattolici abbia anche la sua data, il 3 dicembre. Mentre osserviamo la tomba cala un’atmosfera sacrale, parliamo a voce più bassa e l’aura del luogo ci impone di dedicare tutta la nostra attenzione e le nostre parole a Philibert. Leggiamo e decifriamo l’epitaffio, discutiamo della sua morte, di come deve essere stato orribile non ritrovare mai più l’uscita, se nella sua situazione, senza le nostre mappe e bussole, avremmo avuto più speranze di lui, e poi come potrebbe essere morto per un malore o qualsiasi altra causa mentre ma non perché si trovava lì, diversamente dallo scenario di sepolto vivo evocato dalla lapide. Decidiamo di onorarlo accendendo alcune candele che abbiamo portato e facendo un minuto di silenzio di fronte alla sepoltura.