Scrutavamo l’orizzonte

Scrutavamo l’orizzonte con attenzione propiziatoria. Ciascuno voleva essere il primo ad avvistare in lontananza la fascia di luce arancione che annunciava la fine della penosa attesa. Un tempo schiavo di un altro tempo. Arrivavamo trafelati alla fermata del pullman qualche minuto prima delle sette e iniziavamo ad aspettare, gli occhi fissi sulla strada provinciale. Ne interrogavamo l’asfalto rivolti verso nord, dove dalla zona industriale entrava in paese scendendo dalle montagne. “Quello è l’autobus?” Aguzzavamo la vista. Aveva appena fatto capolino dalla macchia di robinie che fiancheggiava la curva laggiù in fondo un mezzo rossiccio in cima, e quel rossiccio ancora omogeneo avrebbe potuto tra poco diradarsi e svelarsi come le lettere che componevano la destinazione e le fermate intermedie. Eppure non succedeva, il rosso si ostinava e restava un massiccio, insignificante rosso che si faceva anzi sempre più intenso. “No, è solo un camion”. Il sollievo strappatoci come illusorio si ripiegava in un’accresciuta stizza. Pestavamo i piedi. 

Poco importa se ci piacesse o no andare a scuola: ogni minuto in più sul ciglio fangoso di quella strada era un minuto in meno in città. La città. Smaniavamo per svolazzarci intorno e addosso come falene assetate di luce, eravamo lusingati di respirarne l’aria limpida per qualche ora al giorno – e proprio queste ore così preziose dovevano essere decurtate e il loro esordio guastato dal maledetto pullman che non arrivava mai. Dopo un po’, non potendo più reggere la tensione, ci scoraggiavamo e lasciavamo vagare la mente e gli occhi, campo visivo e visione disaccoppiati mentre guardavamo senza vederle la solita siepe di alloro, la solita serranda arrugginita, la solita aiuola brulla, cullati dallo sfrecciare delle auto. Capitava di riaversi con un sussulto ed essere colti dalla paura che il pullman fosse passato nel frattempo, che ci avesse colti tutti impreparati e, senza nessuno a fare il segnale di prenotazione della fermata, fosse passato oltre. Qualche volta succedeva. Allora, con un tuffo al cuore e un po’ oltraggiati, correvamo sbracciandoci fino alla fermata successiva, e di solito l’autista aspettava, ma solo se eravamo abbastanza numerosi. 

“Quello è l’autobus?”, e magari era già la terza volta che la domanda risonava. Seguivamo gli sviluppi del nuovo rossore con diffidenza. A un certo punto, però, le lettere arancioni si stagliavano inequivocabili sullo sfondo nero, “è l’autobus!”. Con giubilo raccoglievamo gli zaini da terra e ci ammassavamo dove normalmente veniva a trovarsi la porta davanti. Quell’ultimo minuto di attesa era quasi piacevole: finalmente l’indeterminatezza era troncata, l’oggetto del nostro aspettare, che, finché la distanza e le robinie lo celavano ai nostri occhi, avrebbe potuto non essere mai partito, essere rimasto bloccato chissà dove, essere destinato, insomma, a non arrivare, era adesso reale, presente, un parallelepipedo in moto  rettilineo verso di noi – la certezza ci scaldava il cuore.

La città sotterranea / 2, inizio

Sento nominare le catacombe non ufficiali per la prima volta a una festa a casa di un giovane imprenditore conosciuto da poco, un’estate. 

Studentessa fuoricorso di comunicazione in Erasmus a Parigi, ero intenta a dilapidare i tempi supplementari della mia giovinezza e i generosi o supplici finanziamenti dei miei genitori corteggiando questo o quel bel giovane di successo e bevendo per dimenticare i rispettivi rifiuti. Con sciatteria trascinavo il peso morto del futuro, la tesi, la ricerca di lavoro, i concorsi, cartellini da timbrare al risveglio a mezzogiorno e scordare all’ora dell’aperitivo. Nemmeno Parigi esisteva davvero per me se non come seccante distanza da percorrere, minuti preziosi sottratti al mio sonno onnivoro, o geolocalizzazioni di speranze, ritardi, batoste e pianti.

Una rete di centinaia di chilometri di tunnel e cunicoli abbandonati sotto la rive gauche, niente luce e niente connessione, accedervi è vietato ma alcuni appassionati conoscono gli ingressi nascosti. Il mio nuovo amico, Jean, è venuto a conoscenza di un ingresso e ha ottenuto una mappa; ha anche già esplorato qualche breve tratto. Inizio a condividere con lui l’entusiasmo per questo luogo misterioso e pericoloso, e per l’opportunità rara di poterlo visitare. 

Organizziamo una prima escursione. La paura e le riserve e la decisione risoluta di superarle in nome dell’avventura sono un nuovo linguaggio, un nuovo programma nel mio sistema, che mi fa riattivare dopo tanto tempo gli arrugginiti accenti della lingua degli scopi e dei progetti. Mi informo su internet, leggo pagine in francese sulla storia e la geografia delle catacombe e blog di esploratori che le hanno visitate. Mi reco in un pomeriggio di pioggia fino al Decathlon di Cluny la Sorbonne per comprare materiali che giudico necessari come una torcia elettrica, molte batterie, un paio di stivali da pioggia, una bussola, uno zainetto da montagna.

Siamo un gruppetto di cinque persone, Jean, un suo parente, un altro ragazzo incontrato alla festa e due mie amiche, Eleonore e Sonia. Veniamo da paesi diversi, Francia, Germania, Italia e Moldavia, e francese, italiano e inglese sono le lingue che risuonano nelle nostre gaie e sgrammaticate conversazioni.

Il nostro primo tentativo di discesa termina in un fallimento.

Già spostarci dalla casa di Jean dove ci eravamo incontrati per prepararci fino all’area del quattordicesimo arrondissement in cui è situato l’ingresso che lui conosce presenta difficoltà impreviste: la linea del tram è interrotta per lavori in corso e questo ci costringe a una lunga deviazione. Arrivati, iniziamo eccitati e pieni di aspettativa a costeggiare nell’umido del piovischio un muro oltre al quale, Jean garantisce, c’è la magica imboccatura della città sotterranea. Il muro, tuttavia, non accenna ad abbassarsi o a interrompersi: è invalicabile. Così almeno appare a me, che soffro di vertigini e non faccio alcuna attività fisica da molti anni. Jean vede le cose diversamente e individua un punto in cui secondo lui si può scavalcarlo senza difficoltà, essendo la porzione più in alto sostituita da una una ringhiera. Cerco di oppormi con una nota di disperazione, dev’esserci un altro modo, mi avevano promesso niente scalata, niente altezze, non posso farcela, vado in panico; ma in fondo so che non posso tirarmi indietro, tanto più che tutti, anche le mie due amiche, compiono l’operazione senza storie, con l’aiuto dei ragazzi. Mi inerpico sulla ringhiera tremando come una foglia, sudando freddo alla sensazione di mani e piedi dentro a stivali troppo grandi – ho prestato i miei a Eleonore per evitare che si ritirasse – che scivolano sul ferro e il cemento bagnati, in equilibrio precario in cima e poi, dall’altro lato, a stento trattenendo grida di terrore alla vista dell’abisso di più di dieci metri da cui mi trattiene solo uno strettissimo cornicione. Da qui con un piccolo salto bisogna raggiungere una scala, su cui si ridiscende fino alla base del muro. Gli altri mi rassicurano e mi tengono la mano, questo salto così rischioso mi sembra oltre le mie possibilità ma non ho scelta e dobbiamo sbrigarci prima che qualcuno ci veda dalla strada. Atterro sulla scala, quasi presa di peso da Jean, con le gambe che tremano così tanto che fatico a reggermi in piedi. Ancora scossa e molto umiliata, scendo i gradini in silenzio, un po’ estraniata dall’eccitazione del resto della comitiva e infastidita dalle loro parole di consolazione. 

Arrivati a terra iniziamo a camminare in direzione dell’ingresso, sul terreno dimesso ed erboso di vie abbandonate e parchi chiusi. Camminiamo abbastanza a lungo, già affascinati dai rampicanti e i graffiti che incorniciano la prospettiva. Scopriamo anche un cancello da cui avremmo potuto passare di qua del muro senza rischiare di romperci l’osso del collo, che per me rappresenta un gran sollievo e la promessa di un ritorno sotto migliori auspici.

Raggiungiamo infine la discreta ma inconfondibile apertura tra muro e terra, come di una tana, l’ingresso delle catacombe. La circondano fango, graffiti e rifiuti, ed è frequente incontrarvi altri gruppi di esploratori. Dobbiamo chinarci, piegarci e raggomitolarci per calarci attraverso, scivolando quasi giù nell’imboccatura di roccia sporca fino a uno stretto cunicolo pochi metri più in basso. 

Uno dopo l’altro, ci allineiamo all’inizio di una galleria più alta poco più in là, i piedi nell’acqua torbida e fresca, respirando l’atmosfera, ambientandoci, valutando le nostre sensazioni e reazioni. Facciamo pochi metri prima che Sonia inizi ad addurre l’acqua a problema insormontabile. Più in generale, ha paura, si sente claustrofobica, non è sicura di poter reggere un’escursione laggiù. Consideriamo l’opzione di separarci ma è tardi e non ce la sentiamo di lasciarla tornare da sola, o insieme a uno dei due ragazzi che non conosciamo bene e che non ispirano particolare fiducia. Ottengo che almeno ci aspettino fuori per mezz’ora mentre con Jean ed Eleonore camminiamo un po’ oltre nella galleria. Mezz’ora vola, attraversando a passi lenti e stentati per paura di inciampare quello spazio così pregno di straordinarietà, cercando di assorbirne più sensazioni possibili, ma con un’infinita tristezza per la nullità dei pochi metri che ci è dato percorrere in quella galleria spoglia di fronte alla chilometrica ricchezza custodita nel buio che si stende di fronte a noi.

Veniamo superati da una comitiva guidata da un uomo barbuto e magro che parla con autorità. Sento che il nostro tempo sta per scadere e ne sono desolata, cerco perciò di aggrapparmi a un contatto con quell’uomo per aumentare la probabilità di un ritorno. Gli chiedo, nel mio francese ridicolo, “Lei è una guida?”. Alla sua risposta affermativa, azzardo una frase e una richiesta più complicata, e con parole mal scelte e goffa insicurezza gli domando se posso partecipare a una delle prossime escursioni da lui condotte. Lui, con fretta e quella che interpreto come una buona dose di disprezzo, mi risponde che la prossima escursione sarà il primo settembre e mi lascia uno pseudonimo e il suo numero di cellulare, prima di sparire inghiottito dalla prossima curva mentre noi, riluttanti, facciamo marcia indietro.

Facciamo marcia indietro verso l’uscita, verso una serata passata a scolare lattine di birra come tutte le altre serate. L’eccitazione per la quasi avventura però illumina un poco anche questo indegno finale, mentre chiacchieriamo seduti per terra in un parco abbandonato. Due giovanissimi ed eccentrici turisti olandesi si intromettono nel nostro circolo movimentando la piattezza dei nostri scambi con le loro pazzie, raccontano che per risparmiare dormono nelle catacombe e bevono acqua piovana, e chiedono informazioni che io, reduce da pomeriggi di studio sui tunnel e le loro attrazioni, sono felice di fornirgli, con una certa invidia per la loro scapestrata libertà e audacia che probabilmente gli permetterà di vedere quei luoghi nascosti e carichi di mistero che io devo accontentarmi di conoscere in immagini e parole.

Il primo settembre è lontano e l’impressione che ho ricavato dall’interazione con la guida non è stata positiva, perciò insisto con Jean ed Eleonore per impegnarci a tornare già la settimana prossima, con l’imperativo di arrivare almeno alla più facilmente raggiungibile tra le sale celebri delle catacombe, la Plage.

Abitavo in una banlieu a sud di Parigi, al decimo piano di un imponente condominio popolare. Ero arrivata pochi mesi prima alla Gare du Nord sull’Eurostar dall’Inghilterra, schiacciata, sfinita da tre valigie e due zaini colmi di ciarpame inutile e libri casuali. In Inghilterra avevo un lavoro fisso come informatico, ma avevo deciso di mandare tutto in malora per tornare all’università e alla ricerca, al tempo stesso sogno di un’infanzia studiosa che non potevo rassegnarmi a dichiare fallito e terra del bengodi del sonno diurno e della sregolatezza, rimpianta ogni mattina al momento di andare in ufficio. 

A Parigi avrei dovuto scrivere la tesi di laurea e aiutare ad analizzare i dati in un laboratorio di ricerca sulla comunicazione politica, ma dopo qualche settimana il palesarsi del divario tra le mie competenze e motivazione e quelle che sarebbero state necessarie a fare qualcosa con quei dati condusse a un tacito compromesso per cui avrei scaldato una sedia e il mio pc per circa sei ore al giorno, preso parte a qualche meeting, salvato insomma la finzione di formarmi come da mission dei tirocini Erasmus, e per il resto sarei stata libera di dedicarmi ai miei progetti, cioè a sbattere la testa confusa contro un muro di idee contraddittorie, vaghe e cangianti circa cosa farne della mia vita. L’unica conclusione a cui arrivai presto e oltre la quale mi mossi ben poco fu “Qualsiasi cosa, ma non analizzare dati”.

Dalla sedia che scaldavo, bastava girarsi per godere di una vista mozzafiato sui tetti, i terrazzi e i comignoli del settimo arrondissement. La ricordo in particolare attraverso una foto carica d’odio che caricai su Instagram: il cielo primaverile di un azzurro vivo e delicato al tempo stesso, qua e là sporcato da spruzzi di nuvola o graffiato da strisce di aeroplani, placido, né bello né brutto; e né bella né brutta al punto da farmi innervosire trovavo anche l’armoniosa varietà bluastra di attici, rampicanti, finestre e tetti sobri ed eleganti che si perdeva a vista d’occhio e solo in lontananza lasciava spuntare, come da un’altra dimensione, minuscole, le guglie di una chiesa, il profilo di un grattacielo. Un mondo di opulenza trattenuta, di solenne sicurezza, rispetto a cui la mia gridata povertà era al tempo stesso oltraggiosamente vicina e a una distanza straziante.

Day in, day out, e in sempre più in ritardo e meno di frequente, ma a nessuno pareva importare granché. Iniziai a scrivere una tesi di laurea ma mi arenai e cambiai tema. Conobbi un gruppetto di universitari cattolici che organizzavano escursioni in Ile-de-France nei weekend: quei viaggi fuoriporta in compagnia di quei giovani colti ed estroversi erano un’isola di sospensione e letizia, momenti di evasione fisica e mentale dalle celle successive che scandivano i miei giorni feriali. L’appartamento stretto e sovraffollato, l’ascensore scricchiolante, i vagoni sporchi e stracolmi della metropolitana all’ora di punta, l’ufficio, i tristi ipermercati di periferia, allontanandosi dietro al treno la domenica mattina lasciavano la presa sul mio umore e la mia immaginazione si apriva euforica e leggera ai colori della campagna, alla storia di chiese e castelli, ai problemi pratici del percorso. Più di tutto, però, mi piaceva seguire le conversazioni dei compagni di viaggio, che erano articolate, interessanti e informate come non ne sentivo da anni, e spaziavano dalla politica alla religione alla storia alla vita parigina al gossip senza mai scadere nella banalità frammentaria che incapsulava qualsiasi argomento nel conversare mio e dei ragazzi che incontravo alle feste e nei pub. Non durò a lungo, tuttavia, perché mi innamorai del leader della comitiva e da incauta gli chiesi un appuntamento: quando lui rifiutò il dolore e l’imbarazzo furono tali che abbandonai il gruppo. Il mio unico ma ipertrofico svago tornavano a essere le serate nei bar, dove quasi ogni giorno mi concedevo qualche ora di costosa felicità fermentata.

Assicurarmi che l’alcol non manchi è una delle mie preoccupazioni principali anche in vista della nostra spedizione nelle catacombe. Non conosco sostanza più capace di riempirmi di energie positive nelle avversità, ed è pensando a come affrontare possibili problemi laggiù che compro birra e whisky e li imballo con cura in fondo allo zaino. Jean è più ottimista e i litri di birra e vino di cui si carica sono concepiti per festeggiare e rilassarci una volta arrivati alla Plage.

La città sotterranea

Sento nominare le catacombe non ufficiali per la prima volta a una festa a casa di un amico [nel dodicesimo. Ero lì per cercare di levarmi dalla testa la mia ultima ossessione romantica, un ingegnere militare che compiaciutone assecondava la mia adorazione nonostante fosse fidanzato. Quando il mio amico mi spiega cosa sono le catacombe non ufficiali, sento subito una grande fascinazione.] Una rete di centinaia di chilometri di tunnel e cunicoli abbandonati sotto la rive gauche, niente luce e niente connessione, accedervi è vietato ma alcuni appassionati conoscono gli ingressi nascosti. Il mio amico è venuto a conoscenza di un ingresso e ha ottenuto una mappa; ha anche già esplorato qualche breve tratto.

Inizio a condividere con lui l’entusiasmo per questo luogo misterioso e pericoloso, e per l’opportunità rara di poterlo visitare. Ci mettiamo presto al lavoro per organizzare un’escursione. Cerco di includere anche l’ingegnere, che però appena scopre i rischi e le sanzioni si ritira. Spesso nella mia vita il conformismo e la prudenza tipici degli uomini sempre convinti di valere molto e avere molto da perdere dei quali tendo ad essere attratta hanno funto per me da ideale; un ideale tuttavia distorto e inibente, perché così poco in linea con il resto della mia personalità. Non questa volta, in cui complice l’individualismo suscitato dalla grande metropoli reagisco con un senso liberante di disprezzo per la sua meschinità che è una ribellione, un rifiuto del mio usuale assoggettamento ai canoni del suo mondo luminoso e arrogante di successo, bella forma e razionalità, l’accettazione orgogliosa di un’incompatibilità troppo a lungo vissuta come fallimento e sconfitta.

Il nostro primo tentativo di discesa è un flop. Abbiamo difficoltà a trovare l’ingresso ed essendoci sfuggita la strada corretta ne imbocchiamo una molto più pericolosa, che richiede di inerpicarsi su un cornicione sospeso su un baratro di una decina di metri, sotto la pioggia.  Dopo pochi metri nelle gallerie con l’acqua alle caviglie, una ragazza della comitiva inizia a sentirsi molto spaventata e claustrofobica. Per non doverci separare, decidiamo di abbandonare l’impresa e tornare la settimana dopo senza di lei.

La settimana dopo, invece, tutto va come previsto, ed entriamo nella rete tutti ben equipaggiati, pronti e motivati. Abbiamo torce elettriche e pile, power banks, abiti adatti a bagnarsi, mappe e una bussola. Percorriamo un lungo tunnel rettilineo nei pressi del Boulevard Jourdan. Il tunnel è alto circa un paio di metri e largo circa un metro e mezzo, e si può marciare speditamente. L’unico ostacolo sono gli occasionali punti allagati: acqua limpida e inodore che sgorga dal sottosuolo, trasparente alla luce delle torce prima di essere resa torbida dalle polveri che solleviamo al nostro passaggio. Piccole stalattiti e altre formazioni calcaree ornano le pareti a tratti deturpate da graffiti frettolosi. Ci imbattiamo in oggetti inattesi come un vecchio generatore, una bicicletta e persino il relitto di un monopattino elettrico. Il mio amico indica piccole mensole e capitelli aperti qua e là nei muri e spiega che vi si possono trovare foglietti che informano su date e luoghi di feste sotterranee. Ne troviamo infatti uno, relativo a una festa passata. I tunnel laterali più bassi che si diramano da quello che stiamo percorrendo sono magnetiche, misteriose imboccature di complessi universi ripiegati.

Una specie di marchio di fabbrica delle gallerie è inciso e stampato a intervalli regolari: sigle alfanumeriche in cui il numero della costruzione è seguito dalle iniziali dell’inspecteur des carrières che ne ha diretto la realizzazione, e dall’anno di questa. L’Inspection générale des carrières è l’organo creato nel 1777 per mappare e consolidare la rete di tunnel in seguito a crolli che mettevano in pericolo gli abitanti al di sopra della rete. Nell’immagine, la B. indica Édouard Blavier, che fu ispettore tra il 1856 e il 1858. Gli anni che ho avuto occasione di vedere nelle mie esplorazioni vanno dagli anni Ottanta del Settecento alla fine dell’Ottocento. [altri esempi]

Un altro segno caratteristico sono le targhe o le iscrizioni con i nomi delle vie corrispondenti nella Parigi di sopra. A volte seguono anche lo stesso schema grafico, scritta bianca in campo blu, altre volte sono semplicemente bassorilievi colorati di nero. La mappa ne riporta la maggior parte, e sono estremamente utili per orientarsi; porto comunque sempre una bussola. I nomi di certe vie fanno un effetto particolare visti quaggiù, le vie che conosco, le vie dove hanno abitato o abitano amici, nemici, amori, le vie associate a momenti belli, brutti o tutt’e due insieme, le vie famose, le vie di cui ho letto online. I ricordi e le associazioni affiorano trasfigurati, connessioni al tempo stesso intime e distanti come la prossimità a quei luoghi, vicinanza fuori dagli schemi prevedibili della vicinanza, vicinanza a tradimento, alle spalle, insospettata, carsica. La sofferenza e la gioia passate sono gemme di senso colorate e preziose riportate alla luce in queste antiche gallerie nelle viscere della capitale. E non manca un senso di rivalsa, per averle ritrovate dove nessuno dei loro co-protagonisti ha mai saputo, osato, finanche immaginato di recarsi, per aver raccolto ricordi in, di e da un mondo che per loro nemmeno esiste.

L’unica luce è quella delle nostre torce elettriche, gli unici suoni le nostre voci e la loro eco, ogni tanto qualche altra comitiva di esploratori, a volte con radio e musica per creare atmosfera. Ogni tanto ci fermiamo impressionati a rumori e tremori probabilmente ascrivibili al passaggio non distante della metropolitana. Mi aspettavo, nel buio e nell’isolamento completo rispetto all’esterno — i nostri telefoni sono infatti irraggiungibili — , di esperire sentimenti dal tono meditativo, mi aspettavo una sorta di misticismo e purificante ritorno in sé, che tuttavia non ho mai provato. Con la comitiva di parla, si scherza, si canta anche: prevale sempre un atteggiamento avventuroso, intraprendente e cameratistico. Portiamo con noi qualcosa da bere e da mangiare, e nelle pause ci fermiamo e riguadagnamo le energie per lo più con qualche birra. Il tempo passa molto velocemente quando si cammina nelle catacombe: il mio amico sostiene che sia un effetto dell’assenza di luce naturale, sfruttato anche nei supermercati, in genere infatti privi di finestre sull’esterno, per far sì che vi si resti più a lungo. Non mi è mai successo di sentirmi stanca di restare nelle catacombe e di sentire un desiderio impellente di uscire; anzi, ogni volta, al momento di risalire, dopo  escursioni dalla durata tra le 5 e le 8 ore, avrei voluto prolungare l’esperienza.

Arrivati all’altezza di Porte d’Orleans, ci dirigiamo verso nord seguendo più o meno l’Avenue du Général Leclerc. Il mio amico ci guida attraverso la stretta galerie des cables, a una specie di “fonte battesimale”, sotto a rue d’Alésia, verso Place Victor et Hélène Basch. Il luogo è descritto “ufficialmente” come “puits à eau avec margelle”. Si tratta infatti di un pozzo, profondo circa 4 metri, pieno fino all’orlo di acqua limpida, situato in un’apertura laterale della galleria e separato dal tracciato principale da un basso muretto. Il mio amico suggerisce che ci “battezziamo” tuffandoci nel pozzo, e dà per primo l’esempio. Accende dei lumini e li posiziona nei pressi del pozzo per creare un’atmosfera arcaica e ieratica. “Che cazzata”, penso. Ma..

Tutti i ragazzi della comitiva lo seguono, e per ultima mi cimento anche io. Mi tuffo e cado di peso fino a toccare il fondo, e ci vuole qualche secondo prima di riemergere. Una volta a galla sono disorientata e vado a sbattere la testa contro una parete a lato del pozzo. L’acqua è molto fredda, ma ci asciughiamo in fretta e la sensazione diventa presto una di benessere. La temperatura nelle catacombe si assesta infatti intorno ai 18 gradi ed è costante tutto l’anno, motivo per cui, tra l’altro, diverse sale hanno anche ricoperto la funzione di cantine per la conservazione di birra, vino, liquori e altri prodotti.

Proseguiamo. Il nostro obiettivo è raggiungere la sala chiamata “La plage”, che era appunto un’antica birreria. La plage è uno dei luoghi più famosi delle catacombe, e inoltre uno dei più facilmente accessibili. Non la troviamo subito, e ci ritroviamo a vagare per un po’ persi tra i meandri della vicina Salle Marie Rose, un complesso di stanze sotto l’omonima via, ma incontriamo presto altri esploratori ci spiegano l’errore. Finalmente raggiungiamo la plage. Ci accoglie una grezza statua a forma di muscoloso bipede con un muso da rana in posa di reggere il soffitto. è coperta di graffiti come quasi tutte le pareti e i pilastri. La plage è abbastanza vasta e labirintica, ma dopo non molto appare davanti a noi quello che è probabilmente lo scorcio più celebre delle catacombe non ufficiali, il grande graffiti che, su una parete della plage, riproduce “La Grande Vague de Kanagawa” di Hokusai. Intorno, addossato alle tre pareti che racchiudono lo spazio, un piccolo rialzo funge da panca dove i visitatori si siedono per bere una birra, fumare, consultare le mappe, dare e ascoltare spiegazioni, conversare, fare conoscenza con altri gruppi, ascoltare musica. Questo è uno dei principali luoghi di ritrovo per i cataphiles, i frequentatori abituali delle catacombe, ma anche per i visitatori occasionali. [scene]

Anche il resto della plage è un luogo affascinante: il soffitto è più alto che nelle gallerie, e pilastri di varie misure e porzioni di muro lo sostengono e spartiscono in vari spazi comunicanti. Immagini della cultura pop si affiancano a simboli misteriosi per iniziati e scritte. 

Il pavimento simile a terra battuta o a melma solidificata, è un inizio, o un resto, di riempimento: come ci spiega una cataphile, negli anni Ottanta si era deciso di eliminare questo spazio si era proceduto a versare sabbia di riempimento che ne ha coperto e innalzato l’originario pavimento, dalla quale riceve il suo attuale nome. La ragazza ci fa notare un letto sepolto, di cui emerge solo la parte superiore della spalliera. In certi punti, la melma è ancora molle e viscosa, e crea delle vere e proprie piccole sabbie mobili o degli strati appiccicosi su cui è difficile camminare senza che le scarpe rimangano appiccicate. In altri punti uno strato sottile di sabbie analoghe dà luogo a superfici scivolosissime dove bisogna camminare con estrema cautela. Ma non è come il fango che si trova all’aria aperta, ha l’aria pulita e interessante di un materiale sintetico che invita a giocare e sperimentare. 

Dalla plage si dipartono le strade che dalla zona nei dintorni di rue Sarrette portano da un lato verso sud, all’area nei pressi del parco di Montsouris, da cui siamo venuti, e dall’altro verso nord, al resto della rete e con le sue innumerevoli ulteriori “attrazioni”. Per la nostra prima visita decidiamo di fermarci qui e di fare ritorno all’uscita. [scena]

Dopo circa un mese, tuttavia, organizziamo una seconda escursione con un obiettivo un po’ più ambizioso. Arriviamo alla plage speditamente attraverso quella che diventa la nostra strada standard, passando sotto alla rue du Père-Corentin, che nel sottosuolo porta ancora in parte il nome originario di Rue de la Voie Verte, e attraverso la Chatière de Sable. Si chiamano chatière i passaggi stretti dove è necessario chinarsi, a volta accovacciarsi e persino strisciare. La chatière de sable è abbastanza larga, ma il tratto per cui bisogna muoversi chinati non è brevissimo. Il nome di chatière de sable è particolarmente calzante, vista la colorazione ocra e la consistenza sabbiosa dei materiali di riempimento che ne ricoprono la camminata e le cui colate fanno capolino da aperture laterali tappate e degradano sui lati come dune. A metà si apre una sorta di spiazzo basso e largo dove ci fermiamo per riposare. Qui c’è anche uno dei molti pozzi che collegano le catacombe alla superficie. Siamo tra i 20 e i 30 metri di profondità, e il pozzo si presenta come un buco nero nel soffitto di cui non si vede il fondo. Questo non ha scale, alcuni sono dotati di pioli di ferro arrugginito fissati alle due estremità nella pietra. La maggior parte, tuttavia, sono sigillati in maniera definitiva, saldati o ricoperti dall’asfalto o dal cemento. 

Alla plage la nostra comitiva si disgrega, ma abbiamo tutti in mente la stessa destinazione: il carrefour des morts. Sappiamo che in questo sito si possono osservare e, volendo, toccare mucchi di antiche ossa, in una versione disordinata e dimessa dei celebri ossari nelle catacombe ufficiali. [io prendo per la prima volta la guida]

Appena usciti dalla plage e incamminatici verso nord, propongo ai miei due compagni di viaggio di fare una deviazione per visitare la grande Chambre Egyptienne, o Cellier. Vi accediamo dal lato est attraverso una stretta Chatière, che si presenta come un’apertura nella parte superiore del muro sinistro della galleria che stiamo percorrendo in direzione nord. Questo complesso di stanze, sempre nella zona Sarrette, è molto esteso e intricato, e ricchissimo di ambienti diversi e disegni e altre forme di decorazione originali, inquietanti e sorprendenti. Usato come birreria e cantina dalla fine dell’Ottocento e collegato al resto della rete negli anni Ottanta, l’intensa e fantasiosa attività profusa dai cataphiles nel decorarlo salta subito all’occhio. Esplorandolo troviamo un riscontro del nome in un gruppo di grandi graffiti che rappresentano personaggi e situazioni ispirati all’Egitto dei faraoni. Tentativi di visita ordinata seguendo le pareti sono vanificati dalla loro natura articolata, frastagliata e molteplice. Ci imbattiamo nell’inquietante e affascinante “Salle des Reflets”, i cui muri sono tempestati di frammenti di specchio e candelabri reggono pezzi di bambole. Scopriamo altri aspetti e dettagli curiosi di questo complesso ritornandoci in una delle escursioni seguenti, come un modellino del pulcino Calimero appeso al soffitto presso la chatière a est, una piccola scala di pietra in cima alla quale in un angolo raccolto sono depositati dei libri, scale a chiocciola che si interrompono nel vuoto, una strettissima chatière che porta in una sala dalle altissime volte che sembra una cappella, assi metallici trasversali che accennano alla cantina di un tempo. 

Ci lasciamo alle spalle le vivaci e variopinte sale del Quartier Sarrette e Proseguiamo verso nord seguendo rue Sarrette e poi rue de la Tombe d’Issoire, fino a un grande crocevia in cui incrociamo un asse ovest-est formato da gallerie spaziose, su cui veglia un’enorme testa grigio-marrone con un naso prominente, pupille bianche e una corona di graffiti, modellata dall’imponente massa di un sostegno. [Qui incontriamo un cataphile che ci spiega… Passa un gruppo di cataphiles con una lampada a olio…]

Imbocchiamo la via verso ovest, che ci conduce tra gli archi di un antico corso dell’Aqueduc d’Arcueil. Passiamo accanto alla sezione della rete separata e dedicata alle visite turistiche degli ossari ufficiali, uno spazio dal significato così diverso eppure uniforme a quello dove siamo e tagliato fuori solo dai tratti di inchiostro che stanno per muri e colate di cemento. Lo costeggiamo da ovest, sotto a rue Sophie Germain e ad Avenue d’Orleans, prima di allontanarci lungo rue Daguerre, costeggiando le gallerie e sale che furono usate come rifugio e quartier generale della resistenza parigina nella Parigi occupata nell’agosto 1944, oggi parte del Musée de la Libération. Pare che si possa arrivare fino a una porta sigillata all’altro lato della quale si sviluppa l’itinerario nell’ossario ufficiale. Penso che mi sarebbe piaciuto arrivarci, per vederla in seguito dall’altro lato durante una visita convenzionale. 

Seguiamo rue Boulard verso nord e camminiamo, senza rendercene conto, sotto al Cimitero di Montparnasse. In questa zona i tunnel si sviluppano su due livelli: quello su cui siamo arrivati, e un livello inferiore. Sul livello superiore poche gallerie ortogonali si intersecano e convergono nella rotonda detta Carrefour des Morts, similmente a come un sentiero ad anello segna il centro del celebre cimitero in superficie. Quest’ultimo ha il suo gemello speculare sotterraneo poco a est del Carrefour des Morts, un’altra rotonda sulla cui parete è stato recentemente realizzato un graffiti rappresentante l’ex-presidente Chirac, in seguito alla sua morte e sepoltura pochi metri più in alto. Al centro del Carrefour des mort un’apertura in alto nel muro cilindrico che chiude lo spazio centrale conduce a un piccolo ossario nel corridoio circolare. Per lo più ossa lunghe e frammenti sono sparsi per terra insieme a mattoni e lastre, in mucchietti più alti ai lati dove forse un tempo erano stati accatastati, e in pochi bassi, irregolari resti di formazioni trasversali. Una sottile vernice di melma dà alla loro superficie gli stessi colore e consistenza che ha quella della pietra tutt’intorno. L’effetto non è di sporcizia, ma pare che il sobrio e neutro velo di materiali inorganici cospiri con l’oscurità per preservare l’armonia cromatica e con essa la pace del sito. Un teschio solitario trovato non molto distante viene riportato e deposto nel corridoio al centro del Carrefour per deliberazione comune. Le ossa gettate e ammassate qui venivano dalle fosse comuni, quelle di fianco al cimitero di Montparnasse quando fu ristrutturato verso metà ottocento, quelle per cui non c’era più spazio nell’ossario municipale ufficiale, quelle delle numerose vittime delle epidemie di colera dell’inizio del diciannovesimo secolo. Venti metri e qualche decina di caratteri in meno, la loro distanza dalle celebrità e i facoltosi del piano di sopra, la loro distanza dalla storia.

è per accaparrare alla mia vita un frammento di ufficialità che poco dopo volo in Italia. Provo a laurearmi finalmente, con molto ritardo, discutendo una tesi penosa messa insieme in poche settimane di canicule, sbronze e romanticismi vani. Parla di filosofia sociale e social media: ho saccheggiato i concetti che più mi “ispiravano” da un po’ di letture disordinate e casuali, li ho ammucchiati insieme e ricoperti con una patina posticcia di coerenza teorica e ricostruzione storica accennate, superficiali, apparenti. Ma, si sa, un organismo massiccio, pesante e formale come una grande università non va tanto per il sottile, non ha certo tempo di stanare ogni piccolo impostore, soprattutto se la laurea in questione non apre nessuna porta verso nessun “lavoro serio”. Minuscola di fronte al potere immenso della commissione e del suo presidente di graziarmi e donarmi un’altra possibilità o suggellare il fallimento definitivo di dieci anni di confusione, incostanza, pressapochismo in cui ansimavano soffocando belle ambizioni e amore per lo studio, per entrare infine in coma sotto ai colpi di ossessioni non domate e le loro conseguenze, l’unica forma in cui sono condannata a esperire l’amore, del sacrificio di tutto per una causa persa, della perdita della salute fisica e mentale, della terapia psichiatrica. Ritualmente avevo preparato con cura una presentazione, tutte le mie forze erano concentrate verso l’interpretazione del ruolo della brava studentessa che si è impegnata, che ha sudato, che merita, che quel che potrete sentire e vedere è solo la punta dell’iceberg di un lavoro molto più grande e profondo; sapendo che l’esibizione oltre ogni dubbio di dedizione e investimento spesso fa scambiare la superficialità per ingenuità o magari persino per complessità. L’incantesimo funziona forse, forse è solo un “tanto vale, per quel che vale”, e mi conferiscono la laurea. Un brivido di gioia mi attraversa per quell’immeritato, disprezzato, non scontato diploma fuoricorso; per un attimo riesco a dimenticare le sue macchie, le mie macchie che lui non cancella, il confronto impietoso con i tempi standard delle istituzioni e quelli dei miei compagni di corso e dei miei amici. La prospettiva della missione compiuta, la concentrazione di tutte le energie e l’attenzione su quell’unico obiettivo delle ultime settimane mi ripaga con la sua peculiare felicità. Ho messo una pezza sul mio profilo in sfacelo, non c’è molto da festeggiare, solo il senso di aver evitato, per un soffio, il peggio. Se non fossi riuscita a laurearmi a questo appello, avrei dovuto rinunciare. I miei genitori sono al settimo cielo, non ci speravano più. Per loro la laurea è comunque una gran cosa: anche loro come l’università, sebbene dall’altra parte dello spettro della legittimità, del potere e della sofisticatezza, non si curano delle sottigliezze, del dietro le quinte, del vuoto che la retorica cela. Il loro ignorante orgoglio e quello, cortese e affezionato, di alcuni amici a cui alla fine mi sono rassegnata a confidare della laurea, sono contagiosi e mi fanno sentire per un po’ esultante e fiera.

Non so ancora, però, se e come saprò sfruttare questa ennesima seconda chance. Sogno di fare un dottorato, ma non ho idee di ricerca né la stima e fiducia di alcun accademico. Ho perso un lavoro dopo l’altro per mancanza di motivazione, pigrizia, inettitudine, alcolismo. L’avversione viscerale che ho sviluppato per l’informatica mi ha inimicato gli unici che sarebbero stati disposti a pagarmi. La notte prima della discussione non ho dormito, pensieri d’amore intrufolatisi nella mia mente hanno disinnescato il sonno ma ho saputo prontamente sfruttare quelle ore per perfezionare la mia esposizione dell’indomani e al mattino mi sono dopata con una Red Bull. Dopo, ignoro i richiami del sonno e del buon senso per godermi il mio piccolo trionfo bevendo prima alla festa di laurea di un compagno più giovane, poi al pranzo in mio onore con famiglia e amici, con il risultato che mi presento ubriaca a un ricevimento accordatomi da una giovane professoressa in carriera da cui speravo di trarre aiuto e supporto per i miei fumosi piani di ricerca. La ratio era che un po’ di alcol mi avrebbe resa più sciolta, sicura e in grado quindi di fare con dignità quel che da sobria mi riesce così pauroso, difficile e goffo, comunicare a tu per tu con qualcuno molto superiore a me per status. Questa tattica il più delle volte funziona, ma sottovaluto la differenza tra l’alcol dosato con precisione nella solitudine della mia stanza fino a ottenere esattamente l’effetto desiderato, e i molti bicchieri bevuti senza nemmeno contare intorno a tavoli festanti. Insomma, esagero e insieme al troppo vino faccio sparire senza rimedio anche quella che forse sarebbe stata un’ottima opportunità di avvicinarmi all’obiettivo che più ho a cuore. Ma sono troppo stanca e rintronata persino per i sensi di colpa, che in riferimento a questo episodio cominceranno a emergere con molte settimane di ritardo. Con il cervello impastato dal sonno continuo a prendere appuntamenti con amici e conoscenti, bere, raccontare spezzoni inconsistenti mio impasse esistenziale, girare come una trottola per le arcinote vie medievali della cittadina facendo acquisti e incontri casuali fino a tarda notte. Già il giorno dopo mi sembra di essere lì da troppo tempo, dentro a un passato concluso che mi espelle, dove non ho più il diritto di restare, che anzi il solo fatto di esservi rimasta legata così a lungo è un’onta e ogni ora ulteriore di indugio è un’ora di disonore. Organizzo un’escursione nelle Catacombe per l’indomani. Il sentimento è così forte che né la voglia di riposare né uno sciopero nazionale dei treni possono trattenermi, e spendo tutto il denaro regalatomi per la laurea per imbarcarmi sul prossimo volo per Parigi.

Gli arcani, taciti, onnipotenti computi di età, salario e relazioni che mi condannano senza appello in ogni bar, ufficio o social network sbiadiscono man mano che dalla mia stanza affittata a nero mi muovo verso l’entrata dei tunnel. A nessuno laggiù importa quanti anni abbiamo, che lavoro facciamo: a volte ce lo diciamo, ma sono trattate come informazioni senza importanza, come se si parlasse del colore preferito o di cosa si ha mangiato a colazione. Persino il mio corpo un po’ sovrappeso, l’irsutismo e la goffaggine di trucco e pettinatura perdono salienza nella luce scarsa, localizzata e funzionale delle torce. Ci immergiamo nell’oscurità spogliandoci dei nostri attributi di carta e delle nostre aure di voci, siamo nudi punti di calore su una mappa di pietra. Sagome pressappoco uguali per grandezza e dignità, ci distinguono solo le nostre coordinate cangianti: diventiamo più astratti, diventiamo più umani.

Raggiunto il Carrefour des Morts, proseguiamo verso nord seguendo il tracciato dei sentieri del cimitero di Montparnasse fino a raggiungere Boulevard Edgar Quinet, poi rue Huygens, dirigendoci verso il grande bunker tedesco della seconda guerra mondiale, all’estremità nord della rete. Avvicinandoci diventiamo disorientati e non capiamo quando esattamente ci siamo arrivati. Molti membri della comitiva sono stanchi o hanno fretta. Marciamo spediti, di svolta in svolta, la mia lenta accuratezza incompatibile ormai con il ritmo generale, e procediamo di pancia, d’istinto, seguendo i punti cardinali e avvalendoci della supposta expertise di un membro del gruppo professionista dello snorkelling. 

Nonostante tutto, arriviamo alla meta: ce ne rendiamo conto vedendo le pesanti porte blindate e le scritte in tedesco sulle pareti, “Rauchen verboten”, “Hinterhof”. Delle frecce rosse, nere e blu indicano le vie d’uscita di allora. Una porta è sfondata come da un’esplosione, e congetturiamo che sia stata fatta saltare in aria al momento della presa del bunker. Restano alcuni arredamenti e accessori: in una stanza troviamo una piccola sedia semi-distrutta ma ancora funzionale accanto a quelli che sembrano apparecchi telefonici o radiofonici, due gusci metallici sventrati e saccheggiati ma contenenti ancora frammenti di ingranaggi, fili e mensoline. In un’altra sala, troviamo un bagno chimico, un bidone con un buco in un piccolo spazio isolato. Ci sono molti spazi così, anche se per la maggior parte vuoti, che evocano l’uso abitativo di questi sotterranei, insieme ai vecchi e spezzati fili della corrente. Saliamo una rampa di scale spaziosa con tanto di corrimano, di quelle che conducevano agli edifici adibiti dai tedeschi a quartier generale, nell’area del Senato, del Lycée Montaigne e della facoltà di farmacia, per arrivare di fronte a un impenetrabile portone sigillato. Proseguendo verso sud, muri e file di piloni massicci e paralleli creano corridoi stretti e spogli come in stalle di pietra; ci avventuriamo per un po’ lungo un corridoio perpendicolare e ci perdiamo brevemente in quel labirinto dalla pesante e rozza simmetria. Non sappiamo bene fino a quando siamo ancora nel bunker e quando ne siamo usciti, mentre poco a poco la regolarità massiccia lascia il posto ai soliti tunnel terrosi e sinuosi. Non riuscendo a capire bene dove siamo sbucati, e resi riluttanti di fronte ad avventure nell’ignoto dalla fretta di alcuni, ritorniamo indietro da dove siamo venuti, attardandoci ancora un po’ a osservare e fotografare le poche vestigia del passato del bunker, a sbirciare nelle nicchie e attraverso le porte superstiti socchiuse. 

Prima di rimprendere spediti il viaggio di ritorno di diversi chilometri, ci fermiamo a mangiare un boccone e bere un bicchiere di whisky in una piccola ed elegante saletta in prossimità dell’accesso ovest del bunker. Un bel candeliere decorato con motivi vegetali pende dal soffitto, e dei bassi cilindri in muratura, come pozzi o piccoli anfiteartri, sembrano i graziosi tavolini di un bistrot. Ci sediamo appartati in un angolo intorno a una lastra di pietra, su una sorta di panca anch’essa di pietra che la circonda, addossata a una parte della parete che sembra il fianco rugoso di una montagna, in contrasto con il soffitto liscissimo. Mentre beviamo, un rumore proveniente da appena oltre l’ingresso della sala ci spaventa: è un rumore come di una borsa di plastica pestata o mossa. Ma non c’è nessuno oltre a noi: al fruscio non seguono passi né voci. Immaginiamo l’avvicinamento furtivo di un malintenzionato, scherziamo sul soprannaturale, il mio amico cerca di sorprendere il colpevole con uno scatto di corsa verso l’origine del suono, senza successo, alla fine concludiamo che deve trattarsi di un topo o qualche altro animale del genere. Finito lo spuntino, spegniamo i lumini che ormai il mio amico ha preso l’abitudine di accendere per illumiunare tutti i nostri momenti conviviali laggiù, raccogliamo tutti gli imballaggi e gli avanzi e ci rimettiamo in cammino. 

Ricordando i ragazzi che abbiamo visto diverse volte inoltrarsi in tunnel fuori dal tracciato principale, specialmente sotto al parco di Montsouris, con casse e radio con musica d’atmosfera, decidiamo di provare anche noi a rendere la marcia più piacevole e leggere con della musica adatta. Riscuote successo un album che ho nel telefono con varie sinfonie di Beethoven, che ascoltiamo a ripetizione per tutta al durata del cammino. Troviamo che le note solenni e marziali della quinta sinfonia risuonino in modo particolare con la nostra marcia nella profindità di quell’immenso, antico alveare di pietra. Camminiamo molto velocemente e ci sentiamo tutti molto di buon umore, chi è davanti avvisa chi è dietro di buche, dislivelli e soprattutto soffitti bassi, su cui è molto facile sbattere la testa. Gli avvertimenti rimbalzano lungo la fila. Arriviamo all’uscita in men che non si dica, sia perché siamo stati oggettivamente veloci, sia perché il tempo è volato nel nostro gioioso ed energico marciare. Una volta riemersi è notte, siamo affamati, e non torniamo a casa prima di un sostanzioso pasto da Subway e qualche birra.

Dopo meno di due settimane, torniamo con l’obiettivo di esplorare l’area est del GRS, dove non siamo ancora mai stati nonostante vi si trovino alcuni tra i landmark più noti come la grande Salle Z e la tomba di Philibert Aspairt, il nume tutelare dei frequentatori delle catacombe. Ci siamo organizzati per restare a lungo, non abbiamo fretta e indugiamo nella Plage e nel Cellier per scoprirne nuovi angoli e mostrarli ad alcuni nuovi membri della comitiva. Arrivati al solenne crocevia della grande testa scolpita proseguiamo lungo il corso dell’acquedotto verso est, per la prima volta. Andando avanti notiamo tunnel più friabili e terrosi, e ci imbattiamo in una piantina solitaria chissà come, chissà perché spuntata in quella crepa inospitale, in quello spazio buio e chiuso completamente minerale fino a un paio di secoli fa. Camminiamo sotto Rue Broussais, e quando compare un curioso muro che divide la nostra strada come in due corsie facciamo una deviazione in un piccolo complesso di sale che si apre a partire da quella a est. La porta è così stretta che lasciamo gli zaini all’entrata, e ci aggiriamo per le piccole Salle des Dinosaurs, rappresentati su una parete, e Salle Zlard, chiamata così per via di una placca mentitrice che informa di essere nella inesistente Rue Zlard, e in cui abbiamo letto che si usasse attaccare la propria amaca per riposarsi un po’. Incrociamo rue Dareau e continuiamo verso nord est, cercando con qualche difficoltà di identificare una roccia scolpita a forma di testa d’orso che orna questo tratto. Pieghiamo a ovest, lungo un tratto del Boulevard Saint-Jacques, fino a incrociare Rue (du Faubourg) Saint-Jacques e trovarci davanti al suo asse sud-ovest nord-est. Quest’ultima è la direzione del nostro itinerario; ma dall’altra parte la galleria smette di essere tunnel o passaggio, trasformata in galleria d’arte da una serie impressionante di murales di altissima qualità. Le pareti illuminate dalle torce si aprono su cicli di scene e personaggi variopinti e ci troviamo a camminare estasiati e stupiti tra minatori, chiostri, supereroi, operai, cavalli in corsa, facciate di palazzi, interni di case, la cattedrale di Notre-Dame, in questo paradossale, incantato museo d’arti visive senza luci, a venti metri dal cielo. Si chiama Galerie des promos. Promos si riferisce alle promozioni all’Ecole des Mines, celebrate con graffiti in questa galleria dalla metà del diciannovesimo secolo. La qualità dei graffiti è diventata quella di veri e propri affreschi negli ultimi decenni, e pare che la traduzione perduri tutt’ora e ogni anno venga scelto un tema tradotto poi in immagini sulle pareti della galleria da alcuni studenti. All’estremità sud la galleria è murata, probabilmente per via della sua vicinanza agli ossari ufficiali. 

Dopo uno sguardo veloce al piccolo parallelepipedo della Salle des Repos nei pressi del crocevia, proseguiamo verso nord est e visitiamo un Cabinet Minéralogique, una stanza in cui piani e mensole ora spogli fungevano da espositori di campioni minerali e altre curiosità, e al centro una costruzione in pietra a gradini illustrava la stratificazione del sottosuolo parigino. Su una placca intagliata alla sommità di quest’ultima si legge: «Bancs de pierre de cette carrière / De la surface de la terre au banc de roche 13 mètres – 40 pieds». 

“Au XIXe siècle, lorsque la confortation des carrières souterraines de Paris bat son plein, l’inspecteur général des carrières Héricart de Thury a l’idée de créer des cabinets de curiosités spécifiques aux souterrains de la capitale. Organisés de la même façon que ceux de la surface, ces cabinets souterrains exposent des collections de minéraux, d’ossements ou d’échantillons des couches géologiques issues du Lutétien. Ils seront construits avec un soin tout particulier, bien qu’ils soient dépourvus d’utilité pratique du point de vue du travail mené en carrière. En effet, ces cabinets symbolisent un certain souci du savoir et des sciences, qu’ils montrent d’une façon théâtrale et volontiers néoclassique. Chacun d’entre eux porte le nom d’un inspecteur des carrières. Sept cabinets vont ainsi être aménagés.” [link wiki]

Questo Cabinet Minéralogique, che fu costruito dal “conducteur des ateliers Saint-Jacques” Gambier-Major (inizio del diciannovesimo secolo), è l’unico a essere attualmente integro e accessibile. 

Continuiamo a seguire rue Saint Jacques verso nord, per un lungo tratto rettilineo che ci porta nei pressi di molti punti di interesse come la cripta, un livello inferiore in muratura con raffinati bassorilievi, e i sotterranei dell’Observatoire de Paris, costruito alla fine del diciassettesimo secolo sopra a gallerie risalenti al medioevo e consolidate per l’occasione che in seguito furono usate a fini scientifici e come rifugio durante la Seconda Guerra Mondiale, che purtroppo tuttavia non riusciamo a raggiungere. Inaccessibili per noi sono anche le medievali Carrières des Capucins che superiamo poco dopo, essendo incorporate in un museo. Presto arriviamo all’altezza dei Souterrains du Val de Grace, l’intricato e vasto groviglio di gallerie e sale di cui fa parte l’immensa Salle Z.

Perdo presto l’orientamento mentre il mio amico ci guida attraverso una stretta e sabbiosa biforcazione in pendenza, c’è già stato e sa che bisogna svoltare in quel punto perché la via segnata sulla mappa è stata bloccata. Ci congediamo dal liscio rettilineo di Rue Saint-Jacques e ci inoltriamo in una imprevedibile e sfidante varietà di possibili direzioni, terreni, altezze. Ponderare ogni svolta non sembra avere più senso, e ci lasciamo trasportare dalla curiosità e da un senso istintivo dello spazio. Passiamo e ripassiamo per salette con nomi, storie e usi che non sappiamo decifrare, saliamo e scendiamo scale svincolate da piani, e raccogliamo le rare scritte delle targhe sulle pareti come le briciole di Hansel e Gretel per avvicinarci alla Salle Z. 

Ci arriviamo infine, dopo essere passati per la cognitivamente rassicurante Salle des 3 chaises, venendo dalla direzione di Rue d’Ulm; scendiamo una scala prima salita invano, attraversiamo uno stretto e alto corridoio e l’enorme sala si apre davanti a noi come una valle in una notte senza stelle. Capiamo di esserci perché non si vede il fondo del vuoto davanti a noi, e il soffitto, sorretto da una foresta di imponenti pilastri in muratura, è alto come quello di un palazzo. Come per tutta l’area circostante, dobbiamo queste architetture principalmente allo sfruttamento del suolo medievale e alla consolidazione intrapresa dall’architetto François Mansart per le costruzioni nel quartiere Val de Grace affidategli sotto Luigi XIV. Ci inoltriamo emozionati sotto le volte, da alcune delle quali gocciola acqua maleodorante, che forma in alcuni punti pozzanghere e rigagnoli melmosi. Seguendo un percorso tortuoso cercando di evitarli e attirati da ogni nuova propaggine della sala, raggiungiamo infine all’altra estremità un confortevole angolo in cui un lastrone di pietra circondato da altri pezzi invita a sedervisi intorno come a un tavolo. Accendiamo i nostri lumini e condividiamo un po’ di pane e formaggio, del vino e un energy drink per pranzo, divertendoci a immaginare come devono essere le feste di cataphiles che abbiamo sentito che sono o erano solite svolgersi qui.

Riposati e sazi dopo non molto ci rimettiamo in cammino, per raggiungere la tomba di Philibert Aspairt. Non è lontana: ritornati su Rue Saint Jacques proseguiamo per un po’ ancora verso nord, poi svoltiamo a ovest, e imbocchiamo un meandro a gomito un po’ disorientante e molto scuro e sobrio, per trovare infine la stele commemorativa in una nicchia quadrangolare sulla nostra sinistra. Si sa poco di certo su Philibert Aspairt. Custode dell’ospizio del Val de Grace, nato nel 1732, discese nelle gallerie nell’autunno 1793; probabilmente vi si perse e il suo corpo fu rinvenuto 11 anni dopo, nella primavera del 1804, e sepolto nel luogo del ritrovamento (sotto l’attuale Rue Henri-Barbusse, allora Rue d’Enfer) — come recita l’epitaffio:

« À la mémoire de Philibert Aspairt perdu dans cette carrière le III (3) Novbre MDCCXCIII (1793) retrouvé onze ans après et inhumé en la même place le XXX (30) avril MDCCCIV (1804) »

Si racconta che cercasse di appropriarsi illecitamente di tesori o di mettere le mani sui magazzini di chartreuse prodotta dai monaci certosini, situati sotto al Jardin du Luxembourg. Oggi è stato assunto nel pantheon delle catacombe nel ruolo di una sorta di santo protettore dei cataphiles, e pare che come i santi cattolici abbia anche la sua data, il 3 dicembre. Mentre osserviamo la tomba cala un’atmosfera sacrale, parliamo a voce più bassa e l’aura del luogo ci impone di dedicare tutta la nostra attenzione e le nostre parole a Philibert. Leggiamo e decifriamo l’epitaffio, discutiamo della sua morte, di come deve essere stato orribile non ritrovare mai più l’uscita, se nella sua situazione, senza le nostre mappe e bussole, avremmo avuto più speranze di lui, e poi come potrebbe essere morto per un malore o qualsiasi altra causa mentre ma non perché si trovava lì, diversamente dallo scenario di sepolto vivo evocato dalla lapide. Decidiamo di onorarlo accendendo alcune candele che abbiamo portato e facendo un minuto di silenzio di fronte alla sepoltura.

Doppia

Ieri le due parti in cui sono divisa sono venute alle mani facendomi subire tutto il dolore, lo strazio della lacerazione. Ogni tanto capita, è inevitabile. Sono così diverse, eppure come gemelli siamesi condannate a un abbraccio fatale. Ma vi sono condannate non come gemelli siamesi dalle leggi della fisica, bensì da leggi più oscure e complicate. L’una è colei che si fa violenza, si impone disciplina, per conformarsi alle richieste che provengono dal mondo. Fa di se stessa materia da plasmare senza pietà, macchinario da sfruttare al massimo per ottenere il miglior risultato, i complimenti, i titoli, i voti, il riconoscimento. L’altra è ribelle: segue i suoi impulsi, s’infiamma di questo e quello fregandosene di quel che significano per gli altri e il mondo, basta a se stessa, è entusiasta, audace, una meteora, un cane sciolto; scalpita, morde il freno, esplodere e spezzare le catene è la sua vocazione. Eppure tragicamente, con tutta questa energia straripante, essa non sa vivere da sola; perché non sa stare al mondo; perché il cibo, il tempo, finanche le parole con cui si esprime sono comprati dagli sforzi dell’altra. La sua vocazione è la sua rovina, è la caduta senza freni in un abisso inarticolato. Ma nemmeno l’altra può stare al mondo da sola: i suoi sforzi sono faticosi e richiedono energia, e questa energia non può venirle da nessun altro se non la gemella visionaria. Solo per lei lavora, solo per lei soffre; non potrebbe lavorare e soffrire per niente altro. Non avrebbe senso. Eppure nel lavorare e nel soffrire per lei, al tempo stesso la calpesta e la soffoca. Sii paziente le dice, più sofferenza oggi per più libertà e gioia domani. Ma non c’è domani per la gemella, lei vive nel presente. Si sottomette un po’ per curiosità e un po’ per fiducia, e l’altra è portata dalla sua stessa logica ad approfittarne per trarre il massimo vantaggio. La gemella allora tradita insorge trasformando le sue forze in forze distruttrici. Vorrebbe spaccare tutto per asserire la sua libertà, e le più gravi minacce dell’altra a stento bastano a impedirle di fare le peggiori sconsideratezze. 

come con le espressioni a scuola

Da bambina odiavo la matematica. Non la odiavo perché non la capivo: anzi, capivo a una velocità e con una profondità che, se qui nel mondo dei grandi sono ritenute lentezza, superficialità o finanche semi-idiozia, per quell’età non erano male, anzi i professori dicevano che ero una bambina “brava in matematica”.
La odiavo perché bastava un errore di distrazione per rendere vani lunghi ragionamenti e calcoli, una svista nel punto sbagliato ed era tutto da ricominciare. Ai numeri e alle regole non fregava niente che padroneggiassi le teorie che ne spiegavano il comportamento, che affrontassi i problemi con ragionamenti validi e originali, tantomeno che “mi applicassi”. Uno stupido errore di distrazione e tutto questo crollava come un castello di carte davanti al duro fatto che il risultato non era quello giusto, e bisognava tornare indietro. Un po’ come al “gioco dell’oca”, ma con una patina di meritocrazia.
Odiavo nella matematica quel che mi spaventava della “vita reale”, dove gli errori si pagano e non importano i loro perché, i loro ma, i loro contesti. Anche per questo adoravo così tanto studiare sui banchi di scuola: c’era sempre un’altra chance, e in quell’ambiente costruito apposta per aiutarci a pensare e imparare era più facile non farsi tradire da variabili trascurate o giudizi affrettati.
Quel che sentivo oscuramente odiando la matematica si è puntualmente fatto concretissimo, e troppo presto la mia esistenza ha preso il corso di una di quelle maledette espressioni — in versione ingigantita, appesantita, unica e ineluttabile.
Buone premesse dentro alla testa e al cuore, passione, potenzialità, ambizione, che fuoriuscendo quasi senza sforzo mi aprivano porte e mi spingevano avanti verso una meta opaca chiamata realizzazione (di cosa?). Avevo delle capacità, dovevo solo giocarmele bene e non fare stupidaggini.
Ma presto mi è toccato scoprire che basta una stupidaggine nel punto sbagliato, per seppellire buone premesse e capacità sotto un soffocante strato di negazioni. Una stupidaggine nel punto sbagliato, e bisogna tornare indietro, non di qualche casella o di qualche “passaggio”, ma di anni. Anni durante i quali gli altri vanno avanti con le loro espressioni, alcuni bruciando orgogliosamente le tappe, altri seguendo la tabella di marcia stabilita, e lo sfortunato distratto resta sempre più indietro mentre scruta miserabile la sequenza di decisioni che lo ha condotto alla situazione senza speranze di avere nella realtà un nemico. A volte altri errori si accavallano, nella frenesia della non rassegnazione, quando si cerca di minimizzare il danno. E si torna ancora più indietro, ancora più anni, ancora più stigma.
Quello che si era prima, l’identità riconosciuta ambiziosa e capace che si poteva indossare come un abito da festa, si smaterializza sotto i colpi dell’implicito negli sguardi e nelle parole di colleghi e amici: io alla tua età…, tu sei “indietro”, ergo…
Ogni tanto, come con le espressioni a scuola, trovo tutto questo assurdo. Dopotutto, sono sempre la stessa persona! Il mio QI non si è abbassato perché quella mattina mi sono svegliata troppo tardi dando il via a una catena di eventi che mi ha resa debilitata per alcuni mesi, mesi cruciali perché erano gli ultimi che avevo per laurearmi; né perché quell’altro giorno, sei mesi dopo, ho accettato il suggerimento di partecipare a un concorso, infine andato male, che mi ha prosciugata di tutto il tempo e l’energia di cui avrei avuto bisogno per costruire un abbozzo di futuro che non fosse fuori tempo massimo. Io sono sempre la stessa persona, quella che vari professori dicevano avrebbe potuto fare una buona carriera, quella che se oggi rifacesse gli esami prenderebbe gli stessi buoni voti. Me lo ripeto come un mantra.
Eppure, proprio come con le espressioni a scuola, ai numeri e alle regole sociali non frega niente delle potenzialità, delle idee, delle passioni, dell’impegno. Tutto questo crolla come un castello di carte davanti al duro fatto che il risultato non è quello atteso e prescritto.

parlando di soldi

Ho di recente finito di ripagare un grosso debito. Lo avevo contratto nella convinzione che perdere il lavoro fosse quasi impossibile, per sfizio più che per bisogno, denaro scialacquato in spese inutili e rozzamente edonistiche. Un albergo un po’ più bello, corse in taxi, pezzi d’arredamento, pasti a domicilio e chissà quant’altro di così poco importante che l’ho dimenticato. Non c’è stato tempo per mangiarmi le mani quando tutto è andato storto, solo una corsa frenetica contro il tempo per salvare il salvabile e scappare con ancora un po’ di spiccioli in tasca, una manciata di neuroni superstiti e uno scorcio di futuro (il fegato era già irrecuperabile). Sono partita di fretta come un ladro, verso un altro paese, senza riuscire, per pigrizia e per demenza, a recuperare nemmeno quel che il fisco mi doveva e facendomi multare dalla compagnia telefonica per mancata restituzione dell’apparecchio (ma ho scordato di pagare). Ho reso quel che dovevo all’ex datore di lavoro in cinque rate da tremila euro l’una, ogni mese inviare il denaro era un macabro rituale. Da un po’ vivo con dei fondi pubblici arraffati con false credenziali di aspirante statistica – non sono molti e tra poco finiranno, non vedo l’ora di essere libera dalle piccole responsabilità e finzioni che mi impongono. La libertà liquida, scivolosa e tiranna del denaro proprio non fa per me: si accettano pagamenti in natura.

vecchie conoscenze

Vi racconto un pezzo della mia giornata.
Mi sveglio di pessimo umore. Per i male informati vivo e lavoro in Francia, ma non riesco a imparare il francese per il mio basso Q.I. e per la mia pigrizia colpevole e l’incolpevole rincoglionimento da farmaci vari il cui uso sano e responsabile è finito giù nello sciacquone di traslochi, fallimenti traumatici e generico stress. Esco di casa in ritardo e molto irritabile. Nella metro rifletto su come guadagnarmi la pagnotta una volta che, tra pochi mesi, il mio stage sarà terminato.
Al momento ci sono due tipi di seccature nella mia vita, quelle eliminabili e quelle ineliminabili. Ineliminabili: sognare ogni notte l’impossibile perdono delle persone che, un anno fa, in seguito a un attacco di esasperazione e tristezza con cui li infastidii e turbai mi tolsero la patente di umanità, ingrassare costantemente e dormire dieci ore a notte a causa della terapia, la solitudine. Eliminabili: l’umiliazione dei commenti altrui sui miei limiti intellettuali, lo stress di compiti al di sopra della mia soglia di esaurimento della pazienza e dell’energia, i ritmi di vita troppo veloci.
Voglio andare in qualunque posto con qualsiasi mansione che mi permetta di eliminare queste ultime. Voglio un lavoro facile con persone facili che apprezzino quel poco di sale che ho in zucca senza puntare il dito contro quel tanto che manca. Voglio che mi restino tempo ed energia liberi per dedicarmi alla mia passione per la frequentazione superficiale di tutto ciò che è connesso alle humanities.
Sono particolarmente interessata a posizioni come il portiere notturno, magari in un albergo. Stare sveglia la notte è per me più facile che il giorno, e parlo abbastanza bene l’inglese (i professori dicevano anzi in maniera eccellente, ma i test standardizzati hanno smentito questa valutazione affrettata distruggendo nel mentre le mie giovani ambizioni di carriera accademica. Da allora però – aggiungo questa frase qualora qualche potenziale datore di lavoro stia leggendo – ho vissuto per sei mesi in Regno Unito). Grazie anche ai consigli di un’amica, alcune altre possibilità allettanti si affacciano alla mia mente. Dopotutto forse conseguirò una laurea magistrale, è un buon titolo, forse posso insegnare, forse posso fare l’assistente sociale.
Tuttavia un veloce controllo online mi insegna che la laurea magistrale che ho ingenuamente scelto (la LM88, segnatevelo) non è né carne né pesce e non consente dunque nessuna delle due opportunità. Non era un caso se eravamo in così pochi iscritti a quel corso. Lo avevo scelto perché amavo la disciplina, in un momento in cui, molto fiduciosa nella mia intelligenza, non pensavo al futuro e davo per scontato che sarei riuscita a realizzare il mio sogno infantile di fare la ricercatrice. Forse in un giorno lontano ce la farò, ma per adesso ho bisogno di tempo, e il tempo costa caro.
Sono ancora sotto una specie di choc per questa altalena emozionale e per il cattivo umore odierno quando esco in pausa pranzo per incontrare un ex compagno di università che sta partendo per le vacanze. So che non mi stima, non ha mai esitato a esplicitare quelli che a suo parere sono i miei gravi deficit caratteriali e intellettuali. Mi fa comunque piacere incontrare un viso noto, un viso che per di più è collegato ai giorni incantati in cui dissipavo la mia vita in maniera spensierata e munifica, certa delle future chances.
Mi annuncia che sarà con noi anche uno dei membri di quel piccolo gruppo che sogno spesso, la cui condanna senza appello ha avuto un impatto così negativo sulla mia esistenza. Giudicando ormai comunque irrecuperabile la giornata, decido di non annullare l’appuntamento, facendomi forza: devo saper celare la mia situazione derelitta per evitare di regalargli un soddisfacente pensiero del tipo “ecco, ben le sta”. Eppure non voglio nemmeno che mi veda felice. Devo apparire di successo, ma malinconica. Che fatica, che complicazione, so che non ce la farò mai, io che non sono mai stata capace nemmeno di raccontare una balla. Comunque vado a truccarmi nel bagno dell’ufficio ed esco.
Sfoggio la mia migliore formalità amichevole, ascolto e faccio osservazioni sulle storie degli altri per non dover parlare della mia. Eppure presto emerge che la mia nemesi sa molto riguardo a me. Di recente è stato ospite delle stesse persone delle quali ero stata ospite io in occasione di un concorso, andatomi poi male (con conseguenze catastrofiche sulla mia già precaria situazione lavorativa, finanziaria e psicologica, la cui portata ho però ragione di credere non sia del tutto nota al di fuori della mia famiglia, grazie a Dio). Sa quindi del mio tracotante tentativo di superare quel selettivo concorso e della batosta. Sa anche della mia intenzione di tornare nella città dove ho studiato, per mendicare un po’ di compagnia mentre cerco di arrivare a fine mese!. Questa informazione è tuttavia di natura meno ufficiale, poco più di un’intenzione confidata a qualche amico, quindi ne nego la veridicità. Faccio un po’ la spaccona dicendo che vivo alla giornata e che non so e non voglio sapere troppo precisamente che fine farò e dove sarò nel periodo a venire. Riguardo al concorso invece, ritiro fuori l’argomento io stessa poco dopo, per mostrare che la questione è per me superata e accettata. La mia performance di autocontrollo e window dressing non è male nel complesso, le assegnerei un 7 e mezzo su 10. Eppure non è sufficiente.
Il mio odiatore infatti non si lascia sfuggire l’occasione di una stilettata vendicativa, quando gli chiedo come gli è parsa la città dei nostri studi al suo recente ritorno. Mi risponde che gli è piaciuta molto, molto più di quando, nell’estate 2018, – tra le righe: a causa tua, delle tue “violenze psicologiche” e “comportamenti devianti e immorali”, così loro definivano il mio disagio e la mia incapacità di autocontrollo, tema principale proprio di quell’estate- la vita lì era per lui molto angosciante. Non ho modo di rispondere, e nemmeno voglio, sarebbe terribilmente inappropriato scatenare un litigio così virulento come quello che le sue parole chiamano, in quel bar parigino e di fronte al terzo amico.
Così ha vinto ancora lui. Ancora una volta la mia debolezza prende la forma di una colpa, ancora una volta il suo comfort turbato ne fa una povera vittima, ancora una volta la reazione oltraggiata davanti al brutto e all’incivile nelle grida e suppliche di chi affogando tende disperatamente la mano in cerca d’aiuto è sacrosanta. Sono desolata se per salvarmi dal peggio ti ho pestato un piede, sono desolata se mentre stavo sprofondando nell’abisso più nero ho secreto della fastidiosissima angoscia nella tua serena routine. E tu, sei desolato di avermi portata per mano sull’orlo del suicidio? Sarebbe stato carino sentirti esprimere almeno un pizzico di dispiacere, invece dell’autocommiserazione e della condanna a denti stretti, perché quel che ho fatto è troppo sporco e impuro anche solo per entrare in contatto con la tua lingua immacolata.
E sai la cosa che più mi strazia? Che forse hai ragione. Forse è vero che la tua pace valeva più dei miei capricci, la mia vita aveva un cappio intorno ma in ultima analisi ce lo avevo messo io, e nessuno tranne me doveva pagare il prezzo delle mie scelte scellerate e dei loro effetti indesiderati. La carità è bella perché è dispensata gratuitamente e liberamente, in maniera non richiesta. Un bene crudele, questa pietà, che al grido del bisognoso che la chiama per nome si dematerializza – un bene aristocratico che dall’alto osserva e giudica e fa cherry-picking, un bene sfuggente che non impegna il benefattore oltre ai limiti volatili della sua voglia, un bene dei buoni per i buoni. Tu hai ragione, le mie invocazioni erano violente e contrarie all’ordine delle cose, e peraltro se trovo che l’ordine delle cose sia crudele non ha certo senso che me la prenda per questo con te e i tuoi compari. O no?

messaggio ai vincitori

Mentre torno verso casa dopo una serata in centro, i professionisti curati e dinamici si diradano per lasciare spazio a sempre più gente stramba, sfigata, ubriachi e derelitti senza speranze. Forse è vero che è saggio frequentare persone del proprio livello. Conosco bene ormai questa sensazione schizofrenica. La sensazione di capire, che i miei pensieri abbiano un valore, inculcatami da qualche maestro delle scuole di ordine inferiore e scelleratamente confermata da un paio di selettivi concorsi superati per una botta di culo. E la sua imperiosa smentita da parte di autorità che non riconosco del tutto ma che al tempo stesso nemmeno posso disconoscere. Professori universitari, conferenzieri, colleghi, manager, giovani donne e uomini in carriera conosciuti al bar, il mondo che ce l’ha fatta. Forse proprio quel mondo di cui quei maestri e quelle maestre speravano che, con i loro incoraggiamenti e le loro benedizioni, avrei potuto entrare a far parte (ricordandoli con gratitudine). No, mi dispiace, vi ho delusi, anche se immagino che non ve ne freghi un cazzo perché chissà quante bambine e bambini avete sviato con le vostre carezze velenose. Ma non ho deluso me stessa, e non perché con orgoglio consapevole e permaloso rifiuto di adeguarmi ai cosiddetti standard, no (non solo) ma (anche) perché non esiste nessuna me stessa al di fuori della credenza, della fede, nel mio proprio pensare. Debole, lacunoso, lento, pigro, ammalato, ma tutto quello che ho per dare senso a questa vita. Per questo ogni tanto penso che dovrei smettere di frequentare gli eletti che il mondo reale ha autorizzato a ritenersi superiori, che con il loro mal celato o dichiarato disprezzo per la mia debolezza e la mia stupidità mi ricordano sempre quanto poco il mio senso e la mia vita valgano. Non so cosa mi attragga a svolazzare masochista intorno alla loro luce come una brutta falena marrone. Comunque vorrei mandar loro un messaggio.

Sì, in questo mondo voi siete i vincitori. Secondo le leggi di questo mondo, voi valete più di me e dei miei simili, in dollari prestigio probabilità di riprodurvi ecc. Ma questo mondo non è mai stato, non è e non sarà mai l’unico possibile. Potete cancellare le tracce del nostro passaggio, i nostri valori, potete chiuderci la bocca col vostro scherno, col vostro schifo e con la vostra beneficienza. Ma non potete cancellare le possibilità. Lo sapete meglio di me, in fondo, che poteva andare diversamente. Che quella che chiamate ragione è solo uno tra i tanti modi di pensare, che quella che chiamate intelligenza è solo una tra le tante abilità che fanno di una persona una persona capace, che quello che chiamate successo è solo il frutto di un favoritismo tra simili arroccati in un monopolio costruito con la forza. La vostra esistenza e il senso della vostra vita sono contingenti proprio come i nostri, anche se voi avete costruito degli esclusivi palazzi e miti per nascondervi da questa spaventosa verità, con la cui ombra oscura, inquietante e traditrice noi invece conviviamo spalla a spalla. Forse è proprio per questo che, nonostante tutto, vi facciamo paura.
Firmato
Una perdente

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data: 18 giu 2019, 23:50

oggetto: inqualificabile

Ciao,
Vivo al nono piano ma ogni tanto incurante del pericolo allento la dura disciplina mentale con cui m’impongo di non pensare a te.
All’inizio è come scivolare dolcemente in un bel sogno e mi dico, che male potrà fare? So che è solo un sogno, è come in un giorno grigio di lavoro e ristrettezze immaginare una vacanza alle Maldive.
Ma subdolo e insidioso si libera così il germe struggente del “se solo…”, se solo i tuoi pregiudizi fossero stati meno forti o meno veri, se solo fossi potuta entrare nella grazia luminosa della tua comprensione, della tua stima, del tuo affetto. Eppure no, non sono stata ammessa, né c’è ragione di sperare che lo sarò mai.
E mi ritrovo a sentire un bisogno di intrufolarmici in ogni modo, con ogni supplica, fosse anche per un secondo di dubbio o rimpianto, fosse anche fuori da quella finestra. O con parole oltraggiose da perderci la faccia come queste.

dummier than dummies

Siamo ingegneri, risolvere problemi è il nostro mestiere. Sguardo ammiccante. Un mantra che ormai ho sentito una dozzina di volte. Ma una miriade di fattori si intrecciano pazzamente e mi impediscono di portare a termine anche i passi più semplici. Premo invio per l’ennesima volta e fisso, con apatica e un po’ affascinata e superstiziosa passività, le linee di testo susseguirsi a velocità vertiginosa nella console mentre il mio codice viene testato (mentre il the test is run, e corre davvero, come corre! Ma ci vogliono comunque una decina di minuti perché il sistema, costruito da altri ingegneri molto migliori di me, determini se il mio codice funziona e regge come mattoncino di una grandissima e complessa architettura per me misteriosa). Trial and error. Ignoranza, lentezza e semplicità di spirito non mi lasciano altre vie. Non conto più i tentativi da stamattina. A ogni nuovo tentativo modifico alla cieca  qualche dettaglio sperando che sia quello decisivo. I colleghi mi osservano e incoraggiano con fatalismo, funziona così, è così che si fa, ci siamo passati tutti. Hai controllato x y e z? (ovviamente no, nemmeno sapevo esistessero). Oh sì quello certo, rispondo. Finisco il nauseabondo caffè con nonchalance e mi precipito alla scrivania. X y e z sono acronimi criptici che non so decifrare. Dovrei chiedere ma tutti ne parlano con tanta certezza di essere compresi! Per fortuna nella mia cronologia riesco, ancora attraverso un laborioso trial and error, a trovare un sito che è una specie di enciclopedia interna dove le nozioni aziendali sono, se non proprio spiegate, almeno riferite. Qualcuno ha scritto una guida for dummies su come controllare y. Per x, bisogna invece contattare il team a. Z non è spiegato – almeno so che ho il diritto di non saperlo. Seguo la guida per y. Errore. Ah, ero disattenta, ho dimenticato il secondo sotto-punto del terzo punto. Che idiota. Altro che smart. Altro che ingegnere che risolve problemi. Ricomincio. Errore di nuovo. Perché?!?! Ah, ho sbagliato a digitare. Questo l’ho visto capitare anche ai migliori ingegneri. Sollievo. Ricomincio. Test riuscito. Ho controllato y, y non era il problema, un terzo della mia menzogna di prima è ora verità.

Nel frattempo è calata la sera, l’ufficio si è svuotato, gli addetti alle pulizie nelle loro divise blu hanno cominciato a sciamare indaffarati tra i tavoli e i computer. Siamo rimaste solo io e la più fanatica workaholic del mio team, e qualche genio ribelle della programmazione. In generale restare in ufficio dopo le 19 denota povertà di relazioni e lentezza, salvo doti e passione eccezionali e risapute. Lei, sola e lenta ma attenta dell’etichetta, leva l’ancora alle 19.05. Nell’uscire mi rimprovera. Io mi schermisco rispondendo sorridente che è solo per stasera, che è perché sono entrata un po’ in ritardo stamattina e perché sto giusto finendo questa cosa. Lei mi dice ok ma non fare tardi mi raccomando, e sgambetta via. Io, sola e lenta e senza onore ma piena di gioia per aver con successo portato a termine i passi elencati nella guida for dummies, voglio restare ancora un po’ a godermi il trionfo fissando il mio schermo calmo e riappacificato con il fattore y. Mi sento piena di speranza e motivazione, mi sento come se finalmente ce la sto facendo, a diventare un vero ingegnere che risolve problemi. È irrazionale, niente mi è più chiaro di prima, non ho nemmeno portato a termine la mia mansione, ma la magia di calcoli imperscrutabili e sfocianti in un incontestabile sebbene per me opacissimo ‘successo’, innescata dai miei, proprio miei, diligenti clic ora qua ora là e persino qualche semplice comando digitato, mi riempie di un altrettanto opaco ma incontestabile orgoglio. Riguardo le istruzioni, scorro velocemente su e giù la schermata in un gesto di dominio — posso giocare con te adesso, non ho più bisogno di dedicarti tutta la mia attenzione, non dipendo più da te, ti padroneggio. Con un senso di fine di una giornata di lavoro degna che non sentivo più da tempo, metto in stand by il pc, getto la spazzatura prodotta in undici ore di stress e snacks, infilo alla rinfusa i miei oggetti nello zaino ed esco sorridendo al guardiano notturno che seccato ma rassegnato alla mia smemoratezza mi ripete per l’ennesima volta che quando si esce dopo le 19 bisogna usare la porticina laterale.

La strada verso casa, crudelmente dilatata al mattino dalla pendenza e dal sonno, è ora contratta in una breve e piacevole passeggiata. Neanche il tempo di cucinare una pastasciutta, e scivolo dolcemente nei miei istinti peggiori, l’alcol, la compulsazione frenetica dei social network, e infine il sonno.

Dopo un doloroso, esitante e dubbio risveglio, si torna a rapporto: qualche biscotto trangugiato se va bene, pratiche igieniche minime ancora se va bene, una pedalata frenetica e sfiancante e, se va proprio bene, posso fare in tempo a bere un caffè e dar due linee di trucco ai miei occhi vuoti da pecora depressa prima della riunione mattutina. La riunione mattutina serve perché la squadra si aggiorni sullo stato delle varie mansioni. All’inizio, quando ero arrivata, questo si faceva con un giro di tavolo in cui ciascuno descriveva in poche parole cosa aveva fatto il giorno prima, ma prestissimo questa intrusione del discorso narrativo in prima persona era stata soppressa in quanto poco “problem-oriented” e troppo drammaturgica a favore di una lavagna bianca con alcuni post it rappresentanti i vari compiti e il loro stadio. Alle insindacabili ore 9.45 il rituale inizia con l’auto-proclamatosi leader carismatico del team che indica uno per uno i post it e l’assegnataria, se l’avanzamento c’è, che con malcelata esultanza enuncia il nome del compito e la sua nuova classificazione; e se non c’è, che spiega, con vaghezza tesa a minimizzare, le ragioni dello stallo a una platea visibilmente soddisfatta della propria momentanea relativa superiorità.

Il carisma del giovanissimo leader deriva dal suo accento posh, dalla sua autostima titanica, e, soprattutto, dal fatto che è stato il primo, e in parte l’unico, a capire il funzionamento del software usato per riflettere virtualmente la lavagna bianca e tutte le varie intricate e burocratiche statistiche da trarne al fine di pianificare la lavagna della settimana seguente. Visto che le statistiche non rappresentano niente, la pianificazione avviene a caso, ma, si sa, il caso ritoccato con qualche numero ha un’aria molto professionale. Com’è naturale per una pecorella smarrita, emotiva e suggestionabile come me, avevo una cotta per il leader, che però mi sono imposta di domare a ogni costo dopo la scottante delusione del giorno in cui mi alzai mezz’ora prima per farmi bella e lui — unica volta in mesi! — non venne in ufficio. D’altronde una semi alcolizzata insicura, poco pulita e sempre in preda a tic può farsi ben poche illusioni romantiche, e comunque lui aveva già la sua principessa, che ebbi anche l’onore di vedere in carne e ossa in tutta la sua aura di chi ce l’ha fatta quando la portò a un ballo aziendale.

Dopo giorni di trial and error, resa anche un po’ spregiudicata dall’esasperazione e quindi operando delle strategiche omissioni, riesco a finalmente a fare in modo che il mio codice superi i test. La felicità è grande, anche se, come sempre, non ho affatto le idee chiare sul perché questa ottantatreesima combinazione riesca laddove le altre ottantadue hanno fallito. Comunque, metto trionfante il mio lavoro sotto gli occhi dei colleghi per iniziare il processo di “peer-review”. Un brevissimo idillio con il successo troncato da un collega, arrivato da poco come me, che nota e fa notare come il lavoro manchi di tutto un ordine ulteriore di test necessari: e stavolta non si tratta di premere un pulsante e sperare nel successo, ma di scriverli, da zero. Inutile rievocare le inutili settimane passate a copia-incollare test analoghi trovati nei database aziendali, a riscontrarne e mascherarne l’inadeguatezza, a ricercare giustificazioni per la loro riduzione. Settimane coronate da un localizzato successo in quanto il pigro collega, a questo secondo giro, non fiuta nemmeno la scarsa qualità del prodotto e se ne dice soddisfatto. Peccato che a fiutarla, pochissimo dopo, sia un altro team in un altro continente, alle cui oneste e sensate richieste di correzioni io non trovo di meglio da opporre che un panico vittimista. La voce seria, pacata e gentile di questa collega d’oltreoceano sarebbe rimasta con me fino all’ultimo giorno di lavoro, sempre reiterando la sua giusta richiesta, razionalità inconsapevole della degradazione della mia volontà e del mio status. Sì, perché, poco dopo questo clamoroso fallimento coronato da una riunione risolutiva con tanto di superiori, in cui esso fu il tema principale — la mia umiliazione fu totale e proporzionali i gongolii dei più insicuri tra i miei pari —, fui declassata al livello professionale inferiore, perdendo, non ancora lo stipendio da ingegnere, ma le funzioni.

Tutti dicono di avere, come tutti, la sindrome dell’impostore, perché questo è un posto così pieno di persone geniali. Io credo che il mio caso sia un po’ diverso, perché non solo non capisco (nessuno capisce), non solo non mi oriento (molti non si orientano), non solo non risolvo problemi (alcuni altri non fanno nemmeno questo), ma nemmeno apprezzo e valorizzo la fortuna, al giorno d’oggi inestimabile, di avere un posto di lavoro ben pagato e abbastanza prestigioso. Non è una scelta, anzi vorrei apprezzare ma non riesco che a odiare questi inestricabili grovigli di logica e burocrazia che sorpassano le mie capacità di comprensione e azione di così tanto da spezzarmi il cuore, un cuore ancora troppo affezionato all’idea di battere per un cervello intelligente.

Il peso dell’umiliazione è minore del sollievo di avere finalmente la sensazione di saper fare quel che ci si aspetta da me. Inoltre ho superato la soglia della vergogna e non ho più così tanta paura a mostrare le mie debolezze ed ignoranze. Sono colei che stava fallendo e ha avuto il coraggio di ammetterlo, e sento che almeno un po’ di stima mi sia dovuta per questo. Mi sento al controllo, mi sento giusta. Le dita volano agili e sicure da un tasto all’altro, alla mia console sono come un abile aviatore, i comandi rispondono docili al mio esperto volere, tutto fila liscio, decollo tragitto atterraggio (applausi), le occasionali perturbazioni le so gestire e superare. Uno dopo l’altro i miei task transumano da una colonna all’altra dello schema di avanzamento, come bovini obbedienti. I am delivering! E anche a passo più che accettabile. A volte resto in ufficio fino a mezzanotte per spremere fino all’ultima goccia la mia nuova percepita eccellenza.

Ogni tanto si tratta solo di aggiungere alla buona migliaia di nuovi elementi a un database, posso farlo quasi senza pensare. Presto però un giovane collega di livello infimo introduce un’acclamata innovazione nel processo per renderlo più automatizzato, e io vado in crisi – gli automatismi della mente e delle dita appresi con fatica sono ormai vani, devo invece imparare a usare un complicato e insidioso foglio Excel. Apprendo anche che il mio lavoro precedente è di qualità troppo bassa. Però a nessuno importa più di tanto e io vengo riassegnata a una mansione più “ingegneristica”.

Sono le 18, è venerdì. Pare che tutto vada per il meglio. Il mio codice sembra funzionare, ha superato tutti i controlli preliminari: è pronto per diventare attivo. So che è un momento delicato ma non me curo troppo, certo all’inizio sudavo freddo in questa fase pericolosa, ma adesso, con tutta la mia esperienza, sono tranquilla e pregusto il distendersi dei nervi quando tutto sarà finito e tornerò a casa e berrò una birra e passerò l’aspirapolvere per la prima volta in mesi perché i miei genitori domani vengono a trovarmi. Digito il comando cruciale. Qualcosa si inceppa. C’è quello che il software chiama un conflitto. Resto calma. C’è una sezione nel nostro vangelo for dummies proprio su come risolvere i conflitti come questo. La recupero e comincio a seguire i passi elencati. Ma i punti sono parole astratte che si librano ben al disopra delle sabbie mobili di codice errori e warnings in cui sono caduta. Non mi oriento nella schermata ribelle, il nuovo formato in cui sono stata trasportata come in un maleficio non risponde ai miei disperati tentativi di comando e finanche di umile dialogo. Come nei sogni in cui devo correre ma ho dimenticato, o non ho mai saputo, come si fa. E allora, nei sogni, faccio movimenti locomotori impacciati e strani, a quattro zampe, sulla schiena, all’indietro. Così nella troppo reale sera di dicembre comincio a premere tutti i tasti a caso, solo per uscire, in un modo o nell’altro, dall’incubo. Alla fine, non so come, ci riesco, e sebbene l’indelebile cronologia porti tutte le tracce dell’assurdo svarione mi sento sopravvissuta. Tiro un sospiro e passo a un altro compito.

Come ultima cosa prima di lasciare l’ufficio, per compilare il report settimanale, controllo se il mio codice funziona correttamente. No, non funziona. Pondero se truccare il report e andare a casa. Ma sì. Perché no. Probabilmente non lo vedo funzionante per una questione di tempo o per un bug dell’interfaccia. Per scrupolo, faccio un controllo un po’ più approfondito. Il mio codice pare aver superato tutti gli stadi di implementazione. Allora perché non fa quel che dovrebbe? è strano. Apro il codice nella versione recepita dal grande sistema di controlli finali automatici e attivazione. Quasi non lo riconosco. Non è il codice che io ho scritto e testato, non solo almeno – un’intera ulteriore parte dall’origine misteriosa si è materializzata mettendo a repentaglio con modifiche avventate e senza senso le funzionalità di base del sistema globale. IL SISTEMA GLOBALE. Sono le 19.30 ora di Greenwich e in tutto il mondo qualcosa di così grande e importante è in tilt per colpa mia.

Non persi il posto quella sera. Riversando panico e rancore in suppliche insistenti a tappeto nei gruppi chat aziendali trovai, tramite un paterno collega, un ingegnere in un altro paese disposto ad aiutarmi e disfare quel che avevo fatto. Il fattaccio fu abbastanza facilmente dimenticato, e la sua gravità era stata comunque attutita da ulteriori checkpoint nella catena di attivazione che avevano infine impedito al codice impazzito di disabilitare il servizio al livello del consumatore.

Rimasi qualche altro mese, giusto in tempo per scoprire che molto del lavoro che avevo svolto nel mio periodo di percepita eccellenza era in realtà viziato, errato, da rifare – e disfarne parte io stessa. Il fatto che le umiliazioni fossero scontate non le rendeva meno dolorose. Mi licenziai perché non potevo più sopportare il loro martellamento, continuo, sicuro come il sorgere del sole. La compagnia ha perso molte migliaia di sterline per questa rincoglionita incapace che voleva fare carriera in un mondo in cui non era nemmeno capace di reggersi in piedi. La ringoglionita in questione ha perso la credenza, illusoria forse ma balsamica, di possedere i doni spirituali che il nostro presente chiama intelligenza.