Cercando di capire perché la mia esperienza universitaria sia andata così male

Cercando di capire con onestà perché la mia esperienza universitaria sia andata così male, mi trovo davanti un groviglio di aspirazioni, istituzioni, piani di studio, programmi d’esame, titoli, nomi e cognomi, righe lette, scorse e scritte, ma quel che invece manca, e quel che in fondo cerco, concetti, significati, sono rimasti confinati nel mondo mitico di prima, dei libri di testo e dei banchi di scuola — il mondo ingiallito e squalificato delle nozioni di base e generali, delle verifiche e delle interrogazioni. La domanda è allora perché non sono mai cresciuta? Non ho saputo crescere, non l’ho voluto, un misto dei due?

Continuare a cercare un senso in un caotico e cupo passato è perseveranza nell’errore, impresa salvifica o ultima àncora di un’identità ormai fossilizzata che si dissolverebbe se dovesse abbandonare senza meta gli ormeggi?

A volte, infatti, ipotizzo che il mio problema sia che appartengo a un’altra epoca e se, per consolarmi e legittimarmi, ogni tanto la penso come una coorte o un contesto storico-sociale, in realtà l’unica cosa di cui ho la certezza è che si tratta di un’epoca biografica, l’epoca dei libri di testo e dei banchi di scuola.

Quando la transizione tra questo tempo e il tempo dell’università avvenne non me ne resi conto, e non sospettai niente per molti anni. Esame dopo esame, approfondimento dopo approfondimento, seguendo norme captate nell’implicito di lodi e biasimi cercavo una vocazione, una passione, una specializzazione. Assumevo che fosse alla mia portata perché anche questo captavo nella combinazione di buoni voti, incoraggiamenti, storie di successo che popolavano i miei semestri.

Quindi, ogni volta che sbattevo contro un muro di disillusione e scoramento, davo per scontato che la strada giusta dovesse essere dietro al prossimo angolo, che una virata di qualche grado fosse quel che serviva e quel che bastava per imboccare la corrente a cui ero destinata. Scacco dopo scacco, raccontavo a me e agli altri di un sano amore per l’esplorazione, un’inquietudine figlia di curiosità e intraprendenza, e per qualche anno risultavo convincente. Mi crogiolavo in una vaga retorica brillante e audace senza mai notare l’aspetto patologico che andava prendendo la sottostante trama contorta, inconcludente e ciarlatana.

Non potevo vedere nient’altro che quella ricerca di quel successo universitario che sentivo sempre meno come un destino sempre di più come un dovuto, a me da me, da me a me. Mi impegnavo, percepivo che lo stavo facendo nel modo sbagliato, smettevo di impegnarmi e ottenevo lo stesso relativi, insipidi successi, che sortivano l’effetto di convincermi che applicando i miei talenti là dove anche la mia vocazione sarebbe stata, la soddisfazione e il senso di spiccare il volo non avrebbero potuto sottrarsi. Passai dalla storia della matematica alla filosofia teoretica alla sociologia e la comunicazione politica all’informatica.

Ripercorrendo nella mente il mio percorso dopo il suo inglorioso aborto, a volte l’ho interpretato in questi termini: la vocazione che cercavo non esisteva, era solo una giustificazione escogitata dalla pigrizia per spingere indefinitamente più in là nel futuro il momento in cui avrei iniziato a impegnarmi davvero. Oppure: i concetti che usavo per misurare le mie azioni erano ingenui ed estremi, più finezza etica e più capacità di compromesso mi avrebbero fatto raggiungere col tempo e con la giusta combinazione di tenacia e flessibilità un successo autentico perché riflettuto, sudato, insomma guadagnato. Eppure l’inganno, se di un inganno si trattava, era ben tenace, perché a ogni disillusione seguiva provvidenziale una nuova passione ben più forte di quanto ricordassi la precedente.

Riflessione sulle assunzioni

Da un lato, a parole, sento spessissimo nel contesto di colloqui di lavoro enfatizzare l’importanza di imparare dai fallimenti, investire sulla propria formazione, sperimentare, mettersi in questione, rifiutare il conformismo opportunistico e simili.

A parole.

Perché poi, nei fatti, mi pare che si tenda a penalizzare:

– Chi vede e lascia vedere i propri fallimenti come un momento doloroso ma imprescindibile, costruttivo e non squalificante, a fronte di chi, invece, è abile nel nascondere i fallimenti in cui è incorso e costruire narrazioni tutte incentrate sulla nozione di successo come valore supremo e ultimo, venuto meno magari quella volta lì tanto tempo fa in quel contesto di poco conto solo per essere trionfalmente e definitivamente riconquistato da un eroe in tal modo fortificato e immunizzato.

– Chi investe sulla propria formazione senza potersi permettere lo sforzo finanziario necessario per master in cui la funzione di certificazione è comunque in genere preponderante rispetto a quella di formazione, e allora invece di investire migliaia di euro investe tempo ed energia; e questo investimento, che si traduce in un miglioramento di quel che sa fare e di quel che sa pensare, sfugge tra le maglie larghe di sistemi di valutazione dei candidati che privilegiano i nomi altisonanti di grandi aziende e università prestigiose a scapito delle effettive capacità, misurate con poche domande trabocchetto standardizzate, vaghe dichiarazioni motivazionali e giochini. D’altronde, cercare di capire davvero cosa sa fare un candidato è più costoso, presupporre un generico ideale trasversale del “tipo sveglio” conviene. E allora il tempo passato a imparare e basta è tempo sprecato, sei stato “fermo” mentre gli altri si davano da fare, hai peccato di ignavia perché non hai acquistato per i tuoi sforzi un bollino di autenticità.

– Chi cerca il cambiamento senza avere una rete di sicurezza, taciuto presupposto di ogni audacia e innovazione.

– Chi si interroga autenticamente sui propri limiti invece di rimuginare e abbellire continuamente i gratificanti ricordi di complimenti, feedback positivi, risultati ottimi. Chi vede i propri errori e ne assume la responsabilità invece di attribuirli ad altri o ineluttabili circostanze. Se il fallimento si sta facendo pian piano strada tra quel che è lecito nominare, l’errore, a meno che non sia una minuzia innocente o inconsapevole, è un mostro taboo. Quando i maestri dell’arte dei colloqui di lavoro dimostrano la massima perfezione del giochino di elencare alcuni difetti e alcuni pregi, non mancano mai di elencare tra i pregi doti brillanti e originali come la capacità di risolvere problemi o l’intelligenza emotiva, né mancano mai di enumerare difetti dall’ambigua negatività segnalata in genere dall’avverbio troppo, come un’eccessiva sensibilità, un’eccessiva abnegazione, e il più classico in assoluto, il perfezionismo.

Ogni colloquio di lavoro, in fondo, funziona come un test di auto-promozione e la capacità di svolgere il lavoro in questione perde sempre più peso a favore della capacità di “vendersi”.

Ora, io non condanno l’auto-promozione in sé, è una pratica necessaria e un’abilità utile; ma mi pare che ci stiamo spingendo un po’ troppo in là se rischiamo di finire per renderla il solo fattore rilevante per accedere a qualsiasi ruolo – con risultati deleteri sia sulla qualità del modo in cui questi ruoli sono svolti, sia più in generale sul patrimonio di diversità di modi di pensare a di agire delle nostre società.

come se la realtà mi fosse scivolata via tra le dita

è come se la realtà mi fosse scivolata via tra le dita. il mio futuro è del tutto scollegato dal mio passato, e questo origina una tensione lacerante. vivo e agisco in un mondo del tutto estraneo, senza agganci, che posso provare a comprendere ma di cui non posso sentire niente. sulle mie spalle intanto grava il peso, condannato allo stato di peso morto, di una vita intera di valori, gusti, legami, sogni interrotti e rimossi. per un po’ ho oscuramente anelato a una conciliazione che ora vedo come illusoria e impossibile. il salto è stato fatto, i ponti bruciati, non c’è modo di tornare indietro. sono disperata. devo, è imperativo, andare avanti, ma il dolore della perdita che mi ero illusa fosse solo un arrivederci è straziante. la perdita di tutti e di tutto quel che è stato ed è davvero importante per me. le persone che ho stimato e amato, le ambizioni che ho coltivato, la cultura che mi forniva, senza che lo apprezzassi appieno, la mia identità. ora non sono più una persona, non sono più nessuno, sono un animale, un organismo dedito alla sopravvivenza e niente di più. e non riesco a sopportarlo. a volte mi sembra di non voler più nemmeno sopravvivere, a questo punto. sopravvivere aspettando un miracolo impossibile, un miracolo che non posso più costruire perché ho buttato a mare gli strumenti e le istruzioni. un’eterna dannazione, punizione per la superbia di aver pensato che si potesse impunetente rinascere una seconda volta. ho provato ad avere più di una vita, e ho distrutto la sola, preziosissima che avevo, privandola del terreno solo reggendosi sul quale poteva svilupparsi verso il cielo. sono diventata una inutile piantina artificiale da gettare senza rimorso nella spazzatura durante le pulizie di primavera.

Cover letter per il girone dei falliti

Ho passato gli ultimi mesi a scrivere cover letter, personal statement, lettere di raccomandazione, ecc., in cui con più disgusto che fatica mi sono trovata a dover incorniciare, decorare, condire e montare la mia storia in modo da renderla appetibile a giurie di fini intenditori di personalità promettenti e grandi potenziali. Pare che oggi se non sai raffigurare la tua vita come una storiella edificante in cui sei l’eroe che trionfa sul male, non ti assume nessuno. (Forse è sempre stato un po’ così, ma in modo più implicito). Oggi però, litigando, mi sono accorta che dimenticare e minimizzare i vizi per queste fiabe ha l’effetto di concedere loro ancora più spazio per spadroneggiare incontrollati nella mia persona tristemente reale.

Così, ho deciso di dedicare questa sera proprio ai difetti, ai problemi e ai fallimenti, e raccontare e raccontarmi la storia dalla loro prospettiva. Perché è facile dire che la realtà è sempre un misto di bene e male; perché è un misto talmente intimo, e perché la memoria dei nostri motivi e dei nostri pensieri è talmente lacunosa, che per quanto ne so con certezza poteva essere quasi tutto bene o quasi tutto male, e solo la forzatura di valutare l’invalutabile costringe a scegliere in quale dei due contenitori piazzare questo e quello. Ci insegnano a costruire narrazioni positive e ispirazionali, e per il gusto di fare l’esatto opposto dopo mesi di ligia obbedienza, mi sono presa la libertà di riflettermi per il tempo di qualche pagina nello specchio scuro del mio anti-potenziale.

Nel corso della mia vita universitaria e lavorativa ho avuto un discreto numero di ottime opportunità, ma per un misto di ingenuità e arroganza le ho sprecate tutte. Non in malafede, ma in nome di principi e valori mal compresi e peggio applicati, di sogni sventati, fantasticherie senza fondamento. Non ho saputo mai trovare alle parole il loro senso sensato, quel che mi dicevano affermazioni, comandi e consigli erano proposizioni astratte, assolute, senza attenuanti e contesto, e non potevo farci niente. La ragionevolezza, un’estranea.

Sono colpevole, sono innocente? Difficile dirlo, se ci penso con onestà mi sembra di aver il più delle volte agito davvero in vista del meglio per come lo intendevo. Ma forse un po’ più di riflessione, un po’ più di distacco, un po’ di umiltà nel mettere in dubbio le mie credenze, avrebbero potuto a un certo punto fermarmi e farmi cambiare rotta. Eppure tutt’ora trovo difficile adattarmi all’idea di aver sbagliato in modo così fondamentale, ora, dopo aver perso tutto. Difficile allora che prima, quando ancora sembravo avere il vento in poppa e orizzonti in lontananza, avessi potuto davvero spogliarmi delle mie fissazioni. Come un cane o un ratto da laboratorio, senza punizioni non potevo apprendere come funzionava il mondo, il mondo del potere. Quindi ora passerò il resto dei miei giorni a prendermela con il mondo per non avermi punita a dovere, per non avermi punita prima, per avermi punita solo tutto d’un colpo quando ormai era troppo tardi. O forse sarà il caso di cominciare a prendermela con me stessa, perché l’inconsapevolezza stessa in fondo è una colpa, perché sono stata un’incosciente (e pensare che contemplavo con orgoglio il mio amore del rischio, e mi sembrava buffo che gli altri non lo condividessero, mi sentivo superiore).

Fai quel che ti pare, tanto tutto si risolverà, se credi in te e in quel che fai. Come se per credere non servissero certe condizioni, come se credere avesse in sé la propria origine e forza. Come se i riscontri del mondo e un tetto sopra la testa fossero inessenziali rispetto al credere. E allora andavo avanti, pensando solo al credere, a sviscerarlo, a trarne tutte le conseguenze e ad agire sulla loro base, senza dare il minimo peso a quelle altre cose, perché pensarci è superficiale, e poi ci pensano tutti, e bisogna distinguersi. E qualche volta funzionava, fortuna del principiante o fascino del temerario, o ancora spacciarsi per originalità, innovazione, intraprendenza. Se solo avesse funzionato meno. Immagino però anche che ai giovanotti si perdonino facilmente certi atteggiamenti e certe incomprensioni, che poi invece negli adulti diventano peccati mortali.

Non faccio parte dei pochi privilegiati che questo festino di idee e idee e idee aggrovigliate su se stesse con poche flebili radici nel mondo potrebbero permetterselo. E parlo proprio di permetterselo finanziariamente. Perché interrogarsi su come investire risorse scarse costringe senz’altro a spodestare le idee e saper piegarle al reale, anche se si è per temperamento portati a fantasticare. (Tuttavia, a onor del vero, devo aggiungere che secondo la mia esperienza coloro che potrebbero permetterselo tendono a non avere nemmeno la tentazione, in virtù di qualche misterioso influsso benefico della ricchezza e della frequentazione dei ricchi sul buon senso). Io, però, sostenni tutti gli studi universitari con una borsa di studio, e quindi fui posta artificialmente nella condizione funesta di avere questa inclinazione autodistruttiva, e in più di potermela permettere, combinazione infausta e non fisiologica.

Dunque, i miei studi universitari in filosofia furono una continua giravolta di idee, ora credo in questo, ora credo in quello, e dato che quello contraddice il primo mi sono convertita, e quello è il bene e quell’altro è un brutto errore con cui non voglio più avere a che fare. Non rispettavo niente e nessuno, perché le idee non si rispettano, le idee sono vere o false, giuste o sbagliate, punto. Quando mi resi conto che non si poteva farla così semplice, che bisognava coprire con perifrasi complesse ogni idea e dare a ognuna cittadinanza in discorsi eruditi e tutti sfumature, decisi che allora tanto valeva postulare che un’idea vale l’altra e mi misi a studiare manoscritti settecenteschi di ottica in latino che non comprendevo nemmeno. Alla fine, mi innamorai della profondità evocativa degli idealisti tedeschi, ma presto capii che sapevo decifrarvi ben poco di particolarmente significativo, pertanto decisi di non tirarla per le lunghe e laurearmi al più presto sfruttando tutti i trucchetti estetici e stilistici per far apparire un’accozzaglia di riassunti e considerazioni vaghe un prodotto di ricerca. Ottenni il massimo dei voti, ma non rimisi mai più piede in quel dipartimento.

Appurato che questa facoltà non faceva per me, ebbi l’unica idea veramente buona della mia vita, quella di iscrivermi a sociologia. Vi si possono distinguere, almeno entro certi limiti, affermazioni giuste da affermazioni errate, c’è una certa continuità, una certa accumulazione del sapere, i docenti sono in genere più amichevoli, si può parlare più o meno delle stesse cose di cui parlano i filosofi ma senza essere zittiti del tutto dal peso della tradizione e dell’erudizione, e soprattutto non si presuppone più che la logica, la morale e il gusto debbano essere gli stessi per tutti e se non ci arrivi hai un problema e sei un po’ meno umano. Questo mi piaceva, mi piaceva capire come le idee fossero molto meno indipendenti di quanto tendessero a farmi credere, e come tanti mondi diversi esistessero dentro al mondo. Era come una moltiplicazione caleidoscopica e una visione finalmente tridimensionale delle idee. Certo, era ancora solo un’idea per me. Me ne sentivo illuminata e ispirata, ed ero entusiasta della mia scelta. C’era il seme di una comprensione che, se fosse stata più profonda, avrebbe potuto forse salvarmi. Ma questo nuovo modo di pensare mi piaceva così tanto da concentrare tutte le energie sul suo lato, appunto, ideale.

Fui capace di godermi appieno tutto questo solo per un semestre, durante il quale peraltro quasi tutti i corsi erano di materie ausiliarie. Poi iniziarono problemi personali e di salute, e cominciai a rimandare e rimandare il serio impegno nello studio. Lo rimandai per tre anni, e lo sto ancora rimandando. Non che formalmente fossi ferma. Davo gli esami, e prendevo anche spesso buoni voti, ma non frequentavo i corsi e studiavo con sufficienza, giusto il necessario, i programmi non mi piacevano troppo ma non facevo alcuno sforzo per approfondire nelle direzioni che invece suscitavano la mia passione, perché avevo altre priorità. Arrivai completamente impreparata al momento della scelta della specializzazione, e, sulla base di motivi impressionistici e di alcuni corsi online di informatica che avevo fatto per ammazzare il tempo su un letto d’ospedale, decisi di specializzarmi in big data e studio della comunicazione politica.

Fui inserita in un laboratorio eccellente dal punto di vista umano e organizzativo, dove imparavo un’infinità di cose sul mondo della ricerca e vi lavoravo con grandi soddisfazioni. Le prospettive erano brillanti, e per un po’ smisi di pensare troppo alle idee, sempre occupata con i molti progetti in corso. Non durò ahimé che alcuni mesi, dopo i quali ricominciai a interrogarmi con insistenza su come potevo inserire la mia fede ispirazionale nella progettualità concreta. Vedevo le enormi opportunità del posto dove ero finita, e capivo che sarebbe stato idiota abbandonarlo. Al tempo stesso, tuttavia, non riuscivo a trovare nei nostri progetti quegli interessi teorici che avevo più a cuore. Credo che a un certo punto mi fossi rassegnata a malincuore a proseguire con decisione sulla linea dello studio della comunicazione politica, e rimandare a dopo e al tempo libero e a quando fossi sistemata e maturata il perseguimento delle mie linee preferite. Ecco un punto in cui avrei potuto salvarmi. Non c’era connessione, ancora, tra l’azione e la sua comprensione, ma sarebbe arrivata dopo, e avrei ringraziato di aver preso quasi senza saperlo una decisione tanto saggia. Eppure forse questa decisione era destinata sfuggirmi, perché l’insoddisfazione che covavo mi spingeva a cercare alternative. E alla prima alternativa che trovai, mi ci tuffai senza pensarci due volte.

Si trattava di un posto di lavoro molto ben pagato come ingegnere informatico. L’idea era, uso questa opportunità per sfuggire alle costrizioni accademiche, guadagno, uso tempo libero e ferie per gli studi sociologici che mi piacciono in completa libertà. Mandai tutto a quel paese e abbandonai l’università. Imbottita di psicofarmaci, con grossi problemi relazionali e senza un talento informatico tale da controbilanciare le prime due, presto divenne tuttavia chiaro che non ce l’avrei fatta a mantenere il mio posto. Fui retrocessa a mansioni manuali, ma una manager dal cuore d’oro allontanava l’ombra del licenziamento concedendomi svariati aiuti. Un altro momento in cui avrei dovuto cogliere l’opportunità con gratitudine. E un altro momento in cui invece feci esattamente l’opposto. Decisi che, dato che questo lavoro stava intaccando il mio benessere psicologico e la mia autostima (beni effimeri di cui oggi, mortificata, umiliata e nevrotica, mi strappo i capelli per aver non aver compreso la natura relativissima), che la cosa migliore da fare fosse non raddoppiare gli sforzi, non vedere un medico migliore che potesse aiutarmi a uscire dalla spirale di psicofarmaci mal dosati e alcolismo in cui ero scivolata, non migliorare la mia organizzazione del tempo, non trasferirmi in una casa più piccola ma più vicina al posto di lavoro, bensì abbandonare il lavoro con un salto nel vuoto sperando di trovare qualche università disposta a darmi un’altra ennesima chance di realizzare i miei “sogni” e seguire i miei interessi. Devo dire che in questo frangente fui anche istigata da molte persone a me vicine, ignare o sviate dalla loro inesperienza del mercato del lavoro e dalla mia auto-commiserazione, che con forza sostennero, forse persino formularono per la prima volta, l’incriminato proposito perdente e autolesionista, preoccupate per una mia salute che non sarebbe stata certo migliorata dalla trafila di umiliazioni e batoste e dal futuro compromesso che dovevano seguirne.

La mia università era in effetti disposta a riprendermi per gli ultimi sei mesi, con uno stage in Francia per completare la tesi e laurearmi. Per il futuro, la sempre disponibile direttrice del laboratorio dove mi ero specializzata mi suggerì di preparare un progetto per concorrere a una posizione di dottorato molto prestigiosa. Era un progetto focalizzato sull’applicazione di metodi di analisi dati allo studio della comunicazione politica: un ritorno a prima della mia assunzione. L’istituzione era molto prestigiosa, quindi non ci pensai due volte… sebbene fossi consapevole della contraddizione che celavo. Mi arrendevo a sacrificare le mie passioni *solo* per il prestigio dell’istituzione, ossia, non avrei mai intrapreso quel percorso in un’altra istituzione. Così dicevo a me stessa, percependo al tempo stesso che si trattava di un ragionamento non troppo in linea con il politicamente corretto accademico, e perciò lo tenni nascosto, e, ipso facto, feci intendere alla professoressa di essere invece desiderosa di svolgere quel progetto in quanto tale, non importa dove. E d’altronde, ci avevo dedicato due interi mesi di lavoro, e per di più avevo concordato l’intero tema del mio stage francese e una nuova tesi di laurea in base a esso. Dall’esterno, a lei, appariva come il ragionevole sforzo di un’alacre studentessa desiderosa di iniziare un dottorato. Per me, era una grossa (e, per la me di ora, sconsiderata) scommessa.

Una scommessa che persi, perché non vinsi il concorso. (Come se non bastasse, la mattina dopo la sera che lo seppi persi il volo e non mi presentai al lavoro – seconda settimana appena – contrariando il mio nuovo capo francese.) Non sapevo cosa fare, mi sembrava che gli errori grossi fossero stati tutti a monte. La “cosa giusta” mi appariva così inconcepibile. Avevo fatto tutto quel che avevo fatto negli ultimi anni solo per conquistare la libertà di seguire le mie idee, e ora, così, avrei dovuto rinchiudermi in un tipo di sforzo che mi appassionava poco ma che al tempo stesso richiedeva passione, lontana dal vago e vagheggiato sogno di perseguire nel lavoro quotidiano idee che ritenevo importanti. Ma ora mi sto facendo suonare quasi troppo ragionevole. Perché è vero che c’è una certa ragionevolezza nell’idea che un progetto di dottorato richiede passione; è anche vero, però, che con un po’ di inventiva e intelligenza un progetto può essere adattato per includere un pochettino di qualsiasi idea, incluse le mie a cui ero così legata. Io però non vedevo compromessi, vedevo solo il bianco e il nero. Decisi di abbandonare il proposito, da me stessa annunciato e concordato, di partecipare a concorsi di altre università italiane, tradendo la fiducia accordatami dalla professoressa. Pensavo comunque di ritentare un round successivo del posto prestigioso iniziale previsto alcuni mesi dopo, come un’idea improvvisa avuta all’ultimo, un “perché no?”.

Non riuscii a centrare nemmeno questo semplicissimo obiettivo, per cui, in teoria, non avrei dovuto fare proprio niente se non proseguire sui miei passi. Ormai la sete di soddisfazione mentale si era impadronita di me e ne ero come posseduta. Odiavo il mio lavoro di analisi dati e odiavo la nuova tesi di laurea a cui stavo lavorando. Leggevo e digitavo svogliatamente, tutto procedeva a rilento, quel poco che realizzavo era di pessima qualità. Quando la mia relatrice se ne accorse e me lo fece notare, ebbi una crisi di nervi e le scoppiai a piangere in faccia (una delle scene più vergognose della mia vita), confessando infine questa tesi non mi piace e perciò non riesco a spremere manco una pagina decente. Lei, come sempre molto comprensiva, mi offrì di rimettermi in contatto con il professore che stava seguendo la mia tesi di prima, quella di quando avevo abbandonato l’università. Lui accettò di riprendermi, e in un paio di mesi scrissi un lavoro speculativo e abbastanza filosofico di un centinaio di cartelle. Aver scritto questa tesi e non l’altra mi squalificava in automatico dalla possibilità di concorrere per il secondo “round” del posto prestigioso. Poco male, restavano pochissime borse di studio ed ero fermamente convinta che non mi andava di “sacrificarmi” “ancora” per giocarmela.

La mia tesi di laurea avrebbe potuto, tuttavia, aprirmi qualche porta, quando riuscii a farla accettare a una conferenza a Londra. Peccato che non preparai abbastanza bene la presentazione e fu un fallimento a dir poco: intendevo leggere, ma mentre leggevo mi rendevo conto con un’evidenza ineluttabile di quanto il mio testo e i miei argomenti fossero privi di valore, inceppandomi così in continuazione, quasi per scusarmi, quasi per tentare invano e senza speranze di correggere quel che era troppo tardi o troppo presto per voler correggere. Con i miei tentennamenti e rimorsi fuori luogo sprecai il tempo dei legittimi, titolati studiosi presenti, che in seguito fecero calare un pietoso silenzio sull’accaduto. Non impressionai positivamente nessuno e non creai nessun contatto. Non si poteva non vedere d’altronde quanta superficialità cercasse con maldestria di celarsi dietro alle mie considerazioni, ne ero ben consapevole e me ne vergognavo. Avrei voluto così tanto avere la possibilità di dedicarmi a fondo a idee che ritenevo importanti, per molti mesi, magari per alcuni anni. Così sì che avrei potuto presentare il mio lavoro con sicurezza e orgoglio, e anche se ci fossero stati problemi nell’esposizione, il valore della ricerca avrebbe potuto trasparire e incuriosire. No, sicuramente non era un segnale che non ero tagliata per questo tipo di mestiere.

Ho abbandonato la Francia e mi sono trasferita, disoccupata e completamente priva di dignità, a casa dei miei genitori nel villaggio che odio e abbandonare il quale era la mia aspirazione principale a partire dai dieci anni e avrebbe dovuto restarlo, e ho fatto questo sacrificio per l’unico scopo per cui mi immolo nei miei sacrifici tra virgolette, cioè seguire le mie idee. Mi ero convinta che il modo migliore per farlo fosse vincere un dottorato negli Stati Uniti, per via della maggiore libertà e il tempo offerti agli studenti, e così avevo preparato e inviato una mezza dozzina di domande in cui, con termini goffi, altisonanti e generici, postulavo ancora un’altra opportunità. Attendendo e sapendo quanto improbabile sia un’accettazione, la mia attuale ricerca di un lavoro si scontra con l’inaffidabilità che il mio profilo sprizza da ogni snodo.

Nella mia vita personale mi sono macchiata di diversi misfatti, e una vittima di uno di questi, quando le chiedevo con insistenza di perdonarmi, mi disse tra gli altri insulti che ero una fallita lamentosa. E pensare che non aveva la più pallida idea di come la mia carriera di sarebbe svolta! Questo mi fa riflettere su come probabilmente molti semi dei miei fallimenti erano già ben piantati e annaffiati quando mi accingevo a mettermi alla prova con esiti così miserevoli. Forse, da quando ho smesso di comportarmi in modo poco civile con le persone, una ulteriore dose di inciviltà e mancanza di controllo si è riversata sul piano professionale. Forse invece, o anche, c’erano tante possibilità di imparare di più e meglio dall’esperienza e dalle persone intorno, possibilità che col mio passo imbranato e pesante ho calpestato e sepolto senza nemmeno scorgerle. Voglio scontarne ora la meritata pena.

Due personaggi

“Ti va di bere qualcosa insieme stasera?”. Quando lesse il messaggio whatsapp, G. fu invaso dal fastidio e pensò “Perché proprio a me?” Non solo quella pazza psicolabile di C., che si credeva si fosse ritirata dal gioco una volta per tutte, era tornata sulla scena più piagnucolosa e ficcanaso che mai, non solo si era trasferita proprio nella sua città e si era infilata proprio nel suo gruppetto di amici, ma aveva anche scelto proprio lui per quelle inopportune e ridicole avances per cui era così nota. Quel che sarebbe successo dopo era facile da prevedere, come in un diagramma di flusso. Una risposta troppo gentile sarebbe solo servita ad alimentare il malinteso e rendere ancora più traumatico il momento della verità, il silenzio rischiava di scatenare insistenze e intrusioni più spinte; il male minore era essere netti e stronzi, una scusa che era ovviamente una scusa, ma che era altrattanto ovviamente insindacabile e definitiva.
“No, stasera vado a correre”. G. si sentì molto fiero delle sue doti di problem-solving. Gli effetti collaterali della sua strategia erano minimi, il pericolo scampato grande, l’episodio sarebbe stato un bel tema per racconti e scherzi con amici e conoscenti dell’università dove lui faceva il ricercatore e C. era studentessa fuoricorso. Alcuni amici dal cuore tenero lo criticarono in nome della debolezza di C., “Sei stato troppo stronzo, G.”, “L’ho sentita, soffre molto”, e queste furono le uniche rare e innocue gocce del mare di dolore della studentessa che riuscirono ad arrivare fino a lui.
C. piangeva al lavoro, in metropolitana, a casa. Questa volta ci aveva davvero sperato, ci aveva creduto. Il sogno di frequentare il colto e brillante G. era diventato un’abbreviazione per il sogno di accedere lei stessa al circolo dei colti e dei brillanti. Se non era stata in grado scrivere progetti di ricerca abbastanza buoni, di guadagnarsi la stima dei docenti, poteva però comprare un vestito nuovo e farsi i capelli e colorarsi gli occhi per qualcuno che ci era riuscito, partecipare un po’ dell’intelligenza e del sapere attraverso l’adorazione servile di chi se li visti riconosciuti dalla comunità.
Al bar, o nel corso delle giornate fuori porta con il gruppo, G. snocciolava fatti, meccanismi, citazioni, li legava con maestria in discorsi lunghi e avvincenti, modulando toni e pause, da abile oratore quale era. Discettava di politica, religione, immigrazione, università, cibo etnico, conoscenti comuni. C. ascoltava estasiata, seguiva ogni frase, ogni nesso, all’erta per trovare domande da porgli o osservazioni da fare. Di queste ultime non ne aveva quasi mai, la consequenzialità e l’esaustività del parlare di G., unite ai sentimenti di lei, non lasciavano spiragli per lo spirito critico. Di domande invece ne avrebbe fatte migliaia, per sentirlo continuare ad approfondire e a spaziare, per allungare quei momenti di apprendimento innamorato fino al limite della loro possibile estensione.

instagram ramblings

First chapter
The first time it happened I was 13 and went to the secondary school the gym of which appears in the pic.
It was a magical, enchanted experience.
I was friends with Him, we talked for hours about the weird topics we shared interest in. The memories of the days with him on a school trip in Central Italy are still my dearest ones.
I hadn’t learned the chameleonic tactics I would later exploit in excess to become the woman He was likely to want. I was myself.
I became obsessed and in a way violent with subterfuges and blackmails, but it never crossed my mind to attempt to engineer my personality, as would later become the standard. Probably also for this reason I remember those days of imagined love as the most beautiful in my life.
I also handled the disappointment relatively well. We shouted at each other once, after which I half attempted suicide and cried a lot, but some weeks after that I was reconciled with my fate. I attended his confirmation ceremony and afterwards put in his mailbox a letter in which I sincerely apologized and said goodbye. He said it was alright. We parted without hatred.
2019-03-12
The need of support. The stubborn need for a very specific support – as if instead of being mobile humans we were trees rooted in the soil and you, you are the only one that can keep me from falling.
2019-03-13
Blurred vision, the steam of desire fogs up the mirrors in others’ eyes and gestures. It’s warm and comfortable and I feel so good in the midst of that vapour. And when the light is there to guide you, who needs details anyway?
2019-03-13
A great distance separates me from the warmth and completeness of intimate relationships. Relationships that can become like homes for their lucky owners, where they come back after a demanding day and find a feeling of belonging and peace. Built and maintained and rich and meaningful. I stand on the bare ground and watch them from a distance with envy. I had grand projects of palaces and skyscrapers for myself. But I was too poor and too ugly to stand a chance.
2019-03-14
Like a grapevine to grow properly along my fellow grapevines I needed something to hold on to, in an almost parasitic way. I needed my body and mind to be in great part shaped by his hard, straight, disciplining presence. Only so I could have grown of some use to society.
2019-03-16
The window of a library. When I first came in here I remember I was almost tipsy for the concentration of ideas, paths, opportunities, stories, possible worlds in its shelves. I jumped from one book to the other frantically satisfying all my obscure curiosities and drives. I wanted, I really wanted to make the most out of it. Unfortunately this enthusiasm was very, too soon replaced by another, more morbid and destructive type of enthusiasm that stayed with me during all those university years. And I forgot the books and I deliberately ignored them and sacrificed the cultivation of my mind in the name of the age old dream to find myself a man. Now that I start regretting it, and that no library like that is available for me anymore…
2019-03-18

message from the past

I am realizing that I grew up in another era. I was constantly told that I was smart because I was good at stories – the texts, history, the interpreting, the rhetoric. I used to throw myself into them, get an intuitive mastery of many invisible threads pulled together by a logic blended with sensitivity, refracted by instinct, summoned and dismissed when it suited me, sliced into practical logics to fit the purpose of following the rugged contours of the subject at hand.
I was praised and rewarded for that. Today, however, that is more often than not the polar opposite of what’s smart. I am learning that my supposed smarts are in fact little more than sheer, damning dumbness – antiquarian passion for the irrelevant, heuristic reasoning, slow learning, lack of analytic skills.
At best one could say that I have soft skills, which, evoking a smiling employee who is not outstandingly productive but at least improves the climate, is almost a punch in the face for somebody like me who has suffered from autism and is still far below the average ability to interact successfully with fellow humans.
I seem to be good at nothing that our culture values. But I cannot forget that once, when I was younger, I was good at something, something that I am still good at, possibly even better, but that has suddenly lost its value.
I walked into the labor market when I still felt sustained by the self-esteem instilled in me by the old-fashioned Italian education system. I boasted and even lied to potential employers, sure that when they hired me they would see all too clearly my real qualities behind the curtain of smoke of stupid tests. Cheerfully, or only a little disturbed, I received the results of tests that, based on my performance in playing video games – I had never played a video game in my life before – divined my utter mediocrity.
When I finally landed a job thanks to a recommendation from a relative, though, I had to see the hard truth that none of the habits, both intellectual and practical and in-between, that were so ingrained in me after years of positive reinforcements, were fit for the modern times. Thinking intensely was for the losers, action for the winners, a need for solitude and silence was morally similar to the self-defeating need for drugs of an addict, everything that could not be expressed in the inflexible chains of analytical logic was meaningless at best, dangerous at worst, because the machines that we as engineers were operating would break down if fed with dumb, false, heretic thoughts. Which, of course, was the incontrovertible proof that those thoughts had no value.
In short, all the ways of being and of acting that lifted me to my “100%” were outdated or banned. Trying to conform was stressful and at times even painful. I was literally nothing: under-performing, incapable of friendliness, underdog in the political games, my spirit shattered, my self-confidence in ruins.
It took sometime to see things this way, to spot what I now consider to be the root of the problem and go on accordingly. Ambition is a sweet temptation and I had to suffer a number of further blows before giving it up. I still find it hard to imagine my future, but of one thing is certain: even if nowadays being like I am is no more a legitimate source of pride nor a career driver, even if from every side I will hear hints at my inferiority with respect to the scientists, engineers and in general the rational people that rule the world of tomorrow, even if the world of yesterday to which I feel I belong will keep rejecting me on the grounds of my working class origin and all the naivety, crudeness and lack of discipline that come with it, even if my psychic illness will make it difficult to follow consistently even my own inclinations, all of this notwithstanding, I will keep valuing the value that long ago I was made to see in my messy, old-fashioned, story-centered mind. The value might not be much, I have no illusions, but it is very likely not zero either, and I aim at joining, in some way, the overcrowded ranks of those who are going to guard and cultivate the dubious and doubtful way of using the mind that I share, enjoy and love.

Pepi

Ihr Zimmermädchen seid gewohnt, durch das Schlüsselloch zu spionieren, und davon behaltet ihr die Denkweise, von einer Kleinigkeit, die ihr wirklich seht, ebenso großartig wie falsch auf das Ganze zu schließen.

Franz Kafka, Das Schloß

Ours is a world of hierarchies. A world partitioned by social differences so that it is fairly unlikely for a female, low class, rural area born person to get access to the upper, ruling urban perspectives. It is as if we were looking at the world from Kafka’s Schlüsselloch mentioned above: only decontextualized hints reach our eyes, and our imagination, our unbridled fantasy is the only resource we can rely on to build ourselves a vision. Even if we later in life get the opportunity to see a bigger picture of the world, our ways of thinking and, above all, feeling, that lay deep down inside our minds and behavior, are unchangeably molded into the shape of that Schlüsselloch and its distorting, concealing edges. We can’t get out from our dark and narrow dormitory on our own – and it is the dim consciousness of this that makes us crave ein Held, ein Mädchenbefreier. Most of the times he comes to our rescue, like K. in Kafka’s novel, unwittingly. He does a random thing without noticing or even without giving a shit, a bit of attention out of mere curiosity, a polite smile, and act of kindness, a joke. A spark is lit in us, though: the vague desire of a different life starts burning and spreading fast and strong in the brush of our psyche. The desire turns into hope, the hope turns into confidence. We start feeling entitled to what earlier looked altogether unattainable. We are transformed, transfigured. But, alas, we are not ready. Too short a notice has been given, for such a big and difficult enterprise. Like the waitress Pepi when she receives the announcement that she shall start in the capacity of head waitress in a couple of hours, and rushes in the search for appropriate clothes and hairdressing – before it was meaningless to her to make efforts to be good looking, because nobody was going to see them waitresses except for the even ruder kitchen personnel; we, who have never before cared in the least for our beauty, begin now frantically to try and improve our looks in any way that our lack of experience and naiveness make us see fit. Like in her case, the result is very far from satisfactory: we lack the resources to make a good job in this field. At first, like Pepi, we think that the result is pretty dignified, even if not perfect. We might, as Pepi does, complain about a bad pair of shoes, wishfully implying that that is the worst defect in our persona. We think that we are almost there, we’ve almost done it! We don’t yet suspect how much there was still left undone. Proud of our achievements, which are indeed remarkable given our point of departure and the short time taken, we step into the main room feeling like soon to be princesses. An imagined sound of triumph fills our ears and makes us dumb to the murmurs and the giggles. We’re being a success! We are breezy and very kind to everybody. We feel light, free from the past, our own and that of the world, free to criticize it and to play with it. Pepi’s honeymoon lasted four days. When it was over, she imputed its abrupt end to bad luck – had this and that not happened, I would certainly have done it, I would have realized my dream and never, never had had to go back to the dark and narrow dormitory. We use a similar strategy sometimes: it makes it less painful, it makes it possible for us to retain some of the self-esteem that the great adventure had endowed us with. But often, and maybe luckily, we cannot be content with that. We look for a better explanation, we place ourselves, like Pepi does, in a situation where more about the causes of our failures will be revealed. As if pushed by an unacknowledged desire for truth, she finds herself telling her hero, K., all her story as she saw it. She starts by saying she is reconciled with her fate now, because it was not due to her lack of capability or effort that she failed. K. ruthlessly contradicts her. What a wild fantasy you have, he tells her. Her way of thinking, cultivated in the dark and narrow dormitory, is at best weird in the free air. Not a wonder that she failed to keep the head waitress job, considering that she held similar ideas. Even the dress and the hairstyle of which she is so proud of, he continues, are but hideous products of that dark narrow dormitory: they might have looked beautiful there, but here, in the free air, everybody laughs at them. Many times Reality has rebuked me with similar words when I looked back more cooly at one of my past enterprises. Unfortunately, we’ll never know what happened to Pepi in the end, because Kafka’s novel is unfinished. She proposes to bring a disgraced K. in the dark and narrow dormitory with her and her fellow waitresses, without success. So, we can assume that she goes back to the stale air and the miserable life to which the waitresses are destined to. She would hide the dress in a corner never to see it again, lest she be painfully reminded of her short and forever gone days of glory. But in the real world, there is no going back. Once the intoxication of freedom and love and self-enhancement is experienced, no matter how much unsuccessful its endeavors and painful its hangover, a whole new perspective opens up in front of us. We realize our limitations, we see how far we are from the top, but now, curiously, we also feel that we have a right to get there, because we had the ardor to desire it.

All the German quotes are drawn from chapter 20 of Das Schloß, the text of which can be found at this link: http://www.zeno.org/Literatur/M/Kafka,+Franz/Romane/Das+Schlo%C3%9F/Das+zwanzigste+Kapitel