Da bambina odiavo la matematica. Non la odiavo perché non la capivo: anzi, capivo a una velocità e con una profondità che, se qui nel mondo dei grandi sono ritenute lentezza, superficialità o finanche semi-idiozia, per quell’età non erano male, anzi i professori dicevano che ero una bambina “brava in matematica”.
La odiavo perché bastava un errore di distrazione per rendere vani lunghi ragionamenti e calcoli, una svista nel punto sbagliato ed era tutto da ricominciare. Ai numeri e alle regole non fregava niente che padroneggiassi le teorie che ne spiegavano il comportamento, che affrontassi i problemi con ragionamenti validi e originali, tantomeno che “mi applicassi”. Uno stupido errore di distrazione e tutto questo crollava come un castello di carte davanti al duro fatto che il risultato non era quello giusto, e bisognava tornare indietro. Un po’ come al “gioco dell’oca”, ma con una patina di meritocrazia.
Odiavo nella matematica quel che mi spaventava della “vita reale”, dove gli errori si pagano e non importano i loro perché, i loro ma, i loro contesti. Anche per questo adoravo così tanto studiare sui banchi di scuola: c’era sempre un’altra chance, e in quell’ambiente costruito apposta per aiutarci a pensare e imparare era più facile non farsi tradire da variabili trascurate o giudizi affrettati.
Quel che sentivo oscuramente odiando la matematica si è puntualmente fatto concretissimo, e troppo presto la mia esistenza ha preso il corso di una di quelle maledette espressioni — in versione ingigantita, appesantita, unica e ineluttabile.
Buone premesse dentro alla testa e al cuore, passione, potenzialità, ambizione, che fuoriuscendo quasi senza sforzo mi aprivano porte e mi spingevano avanti verso una meta opaca chiamata realizzazione (di cosa?). Avevo delle capacità, dovevo solo giocarmele bene e non fare stupidaggini.
Ma presto mi è toccato scoprire che basta una stupidaggine nel punto sbagliato, per seppellire buone premesse e capacità sotto un soffocante strato di negazioni. Una stupidaggine nel punto sbagliato, e bisogna tornare indietro, non di qualche casella o di qualche “passaggio”, ma di anni. Anni durante i quali gli altri vanno avanti con le loro espressioni, alcuni bruciando orgogliosamente le tappe, altri seguendo la tabella di marcia stabilita, e lo sfortunato distratto resta sempre più indietro mentre scruta miserabile la sequenza di decisioni che lo ha condotto alla situazione senza speranze di avere nella realtà un nemico. A volte altri errori si accavallano, nella frenesia della non rassegnazione, quando si cerca di minimizzare il danno. E si torna ancora più indietro, ancora più anni, ancora più stigma.
Quello che si era prima, l’identità riconosciuta ambiziosa e capace che si poteva indossare come un abito da festa, si smaterializza sotto i colpi dell’implicito negli sguardi e nelle parole di colleghi e amici: io alla tua età…, tu sei “indietro”, ergo…
Ogni tanto, come con le espressioni a scuola, trovo tutto questo assurdo. Dopotutto, sono sempre la stessa persona! Il mio QI non si è abbassato perché quella mattina mi sono svegliata troppo tardi dando il via a una catena di eventi che mi ha resa debilitata per alcuni mesi, mesi cruciali perché erano gli ultimi che avevo per laurearmi; né perché quell’altro giorno, sei mesi dopo, ho accettato il suggerimento di partecipare a un concorso, infine andato male, che mi ha prosciugata di tutto il tempo e l’energia di cui avrei avuto bisogno per costruire un abbozzo di futuro che non fosse fuori tempo massimo. Io sono sempre la stessa persona, quella che vari professori dicevano avrebbe potuto fare una buona carriera, quella che se oggi rifacesse gli esami prenderebbe gli stessi buoni voti. Me lo ripeto come un mantra.
Eppure, proprio come con le espressioni a scuola, ai numeri e alle regole sociali non frega niente delle potenzialità, delle idee, delle passioni, dell’impegno. Tutto questo crolla come un castello di carte davanti al duro fatto che il risultato non è quello atteso e prescritto.
Author: jewelhudson
parlando di soldi
Ho di recente finito di ripagare un grosso debito. Lo avevo contratto nella convinzione che perdere il lavoro fosse quasi impossibile, per sfizio più che per bisogno, denaro scialacquato in spese inutili e rozzamente edonistiche. Un albergo un po’ più bello, corse in taxi, pezzi d’arredamento, pasti a domicilio e chissà quant’altro di così poco importante che l’ho dimenticato. Non c’è stato tempo per mangiarmi le mani quando tutto è andato storto, solo una corsa frenetica contro il tempo per salvare il salvabile e scappare con ancora un po’ di spiccioli in tasca, una manciata di neuroni superstiti e uno scorcio di futuro (il fegato era già irrecuperabile). Sono partita di fretta come un ladro, verso un altro paese, senza riuscire, per pigrizia e per demenza, a recuperare nemmeno quel che il fisco mi doveva e facendomi multare dalla compagnia telefonica per mancata restituzione dell’apparecchio (ma ho scordato di pagare). Ho reso quel che dovevo all’ex datore di lavoro in cinque rate da tremila euro l’una, ogni mese inviare il denaro era un macabro rituale. Da un po’ vivo con dei fondi pubblici arraffati con false credenziali di aspirante statistica – non sono molti e tra poco finiranno, non vedo l’ora di essere libera dalle piccole responsabilità e finzioni che mi impongono. La libertà liquida, scivolosa e tiranna del denaro proprio non fa per me: si accettano pagamenti in natura.
vecchie conoscenze
Vi racconto un pezzo della mia giornata.
Mi sveglio di pessimo umore. Per i male informati vivo e lavoro in Francia, ma non riesco a imparare il francese per il mio basso Q.I. e per la mia pigrizia colpevole e l’incolpevole rincoglionimento da farmaci vari il cui uso sano e responsabile è finito giù nello sciacquone di traslochi, fallimenti traumatici e generico stress. Esco di casa in ritardo e molto irritabile. Nella metro rifletto su come guadagnarmi la pagnotta una volta che, tra pochi mesi, il mio stage sarà terminato.
Al momento ci sono due tipi di seccature nella mia vita, quelle eliminabili e quelle ineliminabili. Ineliminabili: sognare ogni notte l’impossibile perdono delle persone che, un anno fa, in seguito a un attacco di esasperazione e tristezza con cui li infastidii e turbai mi tolsero la patente di umanità, ingrassare costantemente e dormire dieci ore a notte a causa della terapia, la solitudine. Eliminabili: l’umiliazione dei commenti altrui sui miei limiti intellettuali, lo stress di compiti al di sopra della mia soglia di esaurimento della pazienza e dell’energia, i ritmi di vita troppo veloci.
Voglio andare in qualunque posto con qualsiasi mansione che mi permetta di eliminare queste ultime. Voglio un lavoro facile con persone facili che apprezzino quel poco di sale che ho in zucca senza puntare il dito contro quel tanto che manca. Voglio che mi restino tempo ed energia liberi per dedicarmi alla mia passione per la frequentazione superficiale di tutto ciò che è connesso alle humanities.
Sono particolarmente interessata a posizioni come il portiere notturno, magari in un albergo. Stare sveglia la notte è per me più facile che il giorno, e parlo abbastanza bene l’inglese (i professori dicevano anzi in maniera eccellente, ma i test standardizzati hanno smentito questa valutazione affrettata distruggendo nel mentre le mie giovani ambizioni di carriera accademica. Da allora però – aggiungo questa frase qualora qualche potenziale datore di lavoro stia leggendo – ho vissuto per sei mesi in Regno Unito). Grazie anche ai consigli di un’amica, alcune altre possibilità allettanti si affacciano alla mia mente. Dopotutto forse conseguirò una laurea magistrale, è un buon titolo, forse posso insegnare, forse posso fare l’assistente sociale.
Tuttavia un veloce controllo online mi insegna che la laurea magistrale che ho ingenuamente scelto (la LM88, segnatevelo) non è né carne né pesce e non consente dunque nessuna delle due opportunità. Non era un caso se eravamo in così pochi iscritti a quel corso. Lo avevo scelto perché amavo la disciplina, in un momento in cui, molto fiduciosa nella mia intelligenza, non pensavo al futuro e davo per scontato che sarei riuscita a realizzare il mio sogno infantile di fare la ricercatrice. Forse in un giorno lontano ce la farò, ma per adesso ho bisogno di tempo, e il tempo costa caro.
Sono ancora sotto una specie di choc per questa altalena emozionale e per il cattivo umore odierno quando esco in pausa pranzo per incontrare un ex compagno di università che sta partendo per le vacanze. So che non mi stima, non ha mai esitato a esplicitare quelli che a suo parere sono i miei gravi deficit caratteriali e intellettuali. Mi fa comunque piacere incontrare un viso noto, un viso che per di più è collegato ai giorni incantati in cui dissipavo la mia vita in maniera spensierata e munifica, certa delle future chances.
Mi annuncia che sarà con noi anche uno dei membri di quel piccolo gruppo che sogno spesso, la cui condanna senza appello ha avuto un impatto così negativo sulla mia esistenza. Giudicando ormai comunque irrecuperabile la giornata, decido di non annullare l’appuntamento, facendomi forza: devo saper celare la mia situazione derelitta per evitare di regalargli un soddisfacente pensiero del tipo “ecco, ben le sta”. Eppure non voglio nemmeno che mi veda felice. Devo apparire di successo, ma malinconica. Che fatica, che complicazione, so che non ce la farò mai, io che non sono mai stata capace nemmeno di raccontare una balla. Comunque vado a truccarmi nel bagno dell’ufficio ed esco.
Sfoggio la mia migliore formalità amichevole, ascolto e faccio osservazioni sulle storie degli altri per non dover parlare della mia. Eppure presto emerge che la mia nemesi sa molto riguardo a me. Di recente è stato ospite delle stesse persone delle quali ero stata ospite io in occasione di un concorso, andatomi poi male (con conseguenze catastrofiche sulla mia già precaria situazione lavorativa, finanziaria e psicologica, la cui portata ho però ragione di credere non sia del tutto nota al di fuori della mia famiglia, grazie a Dio). Sa quindi del mio tracotante tentativo di superare quel selettivo concorso e della batosta. Sa anche della mia intenzione di tornare nella città dove ho studiato, per mendicare un po’ di compagnia mentre cerco di arrivare a fine mese!. Questa informazione è tuttavia di natura meno ufficiale, poco più di un’intenzione confidata a qualche amico, quindi ne nego la veridicità. Faccio un po’ la spaccona dicendo che vivo alla giornata e che non so e non voglio sapere troppo precisamente che fine farò e dove sarò nel periodo a venire. Riguardo al concorso invece, ritiro fuori l’argomento io stessa poco dopo, per mostrare che la questione è per me superata e accettata. La mia performance di autocontrollo e window dressing non è male nel complesso, le assegnerei un 7 e mezzo su 10. Eppure non è sufficiente.
Il mio odiatore infatti non si lascia sfuggire l’occasione di una stilettata vendicativa, quando gli chiedo come gli è parsa la città dei nostri studi al suo recente ritorno. Mi risponde che gli è piaciuta molto, molto più di quando, nell’estate 2018, – tra le righe: a causa tua, delle tue “violenze psicologiche” e “comportamenti devianti e immorali”, così loro definivano il mio disagio e la mia incapacità di autocontrollo, tema principale proprio di quell’estate- la vita lì era per lui molto angosciante. Non ho modo di rispondere, e nemmeno voglio, sarebbe terribilmente inappropriato scatenare un litigio così virulento come quello che le sue parole chiamano, in quel bar parigino e di fronte al terzo amico.
Così ha vinto ancora lui. Ancora una volta la mia debolezza prende la forma di una colpa, ancora una volta il suo comfort turbato ne fa una povera vittima, ancora una volta la reazione oltraggiata davanti al brutto e all’incivile nelle grida e suppliche di chi affogando tende disperatamente la mano in cerca d’aiuto è sacrosanta. Sono desolata se per salvarmi dal peggio ti ho pestato un piede, sono desolata se mentre stavo sprofondando nell’abisso più nero ho secreto della fastidiosissima angoscia nella tua serena routine. E tu, sei desolato di avermi portata per mano sull’orlo del suicidio? Sarebbe stato carino sentirti esprimere almeno un pizzico di dispiacere, invece dell’autocommiserazione e della condanna a denti stretti, perché quel che ho fatto è troppo sporco e impuro anche solo per entrare in contatto con la tua lingua immacolata.
E sai la cosa che più mi strazia? Che forse hai ragione. Forse è vero che la tua pace valeva più dei miei capricci, la mia vita aveva un cappio intorno ma in ultima analisi ce lo avevo messo io, e nessuno tranne me doveva pagare il prezzo delle mie scelte scellerate e dei loro effetti indesiderati. La carità è bella perché è dispensata gratuitamente e liberamente, in maniera non richiesta. Un bene crudele, questa pietà, che al grido del bisognoso che la chiama per nome si dematerializza – un bene aristocratico che dall’alto osserva e giudica e fa cherry-picking, un bene sfuggente che non impegna il benefattore oltre ai limiti volatili della sua voglia, un bene dei buoni per i buoni. Tu hai ragione, le mie invocazioni erano violente e contrarie all’ordine delle cose, e peraltro se trovo che l’ordine delle cose sia crudele non ha certo senso che me la prenda per questo con te e i tuoi compari. O no?
messaggio ai vincitori
Mentre torno verso casa dopo una serata in centro, i professionisti curati e dinamici si diradano per lasciare spazio a sempre più gente stramba, sfigata, ubriachi e derelitti senza speranze. Forse è vero che è saggio frequentare persone del proprio livello. Conosco bene ormai questa sensazione schizofrenica. La sensazione di capire, che i miei pensieri abbiano un valore, inculcatami da qualche maestro delle scuole di ordine inferiore e scelleratamente confermata da un paio di selettivi concorsi superati per una botta di culo. E la sua imperiosa smentita da parte di autorità che non riconosco del tutto ma che al tempo stesso nemmeno posso disconoscere. Professori universitari, conferenzieri, colleghi, manager, giovani donne e uomini in carriera conosciuti al bar, il mondo che ce l’ha fatta. Forse proprio quel mondo di cui quei maestri e quelle maestre speravano che, con i loro incoraggiamenti e le loro benedizioni, avrei potuto entrare a far parte (ricordandoli con gratitudine). No, mi dispiace, vi ho delusi, anche se immagino che non ve ne freghi un cazzo perché chissà quante bambine e bambini avete sviato con le vostre carezze velenose. Ma non ho deluso me stessa, e non perché con orgoglio consapevole e permaloso rifiuto di adeguarmi ai cosiddetti standard, no (non solo) ma (anche) perché non esiste nessuna me stessa al di fuori della credenza, della fede, nel mio proprio pensare. Debole, lacunoso, lento, pigro, ammalato, ma tutto quello che ho per dare senso a questa vita. Per questo ogni tanto penso che dovrei smettere di frequentare gli eletti che il mondo reale ha autorizzato a ritenersi superiori, che con il loro mal celato o dichiarato disprezzo per la mia debolezza e la mia stupidità mi ricordano sempre quanto poco il mio senso e la mia vita valgano. Non so cosa mi attragga a svolazzare masochista intorno alla loro luce come una brutta falena marrone. Comunque vorrei mandar loro un messaggio.
Sì, in questo mondo voi siete i vincitori. Secondo le leggi di questo mondo, voi valete più di me e dei miei simili, in dollari prestigio probabilità di riprodurvi ecc. Ma questo mondo non è mai stato, non è e non sarà mai l’unico possibile. Potete cancellare le tracce del nostro passaggio, i nostri valori, potete chiuderci la bocca col vostro scherno, col vostro schifo e con la vostra beneficienza. Ma non potete cancellare le possibilità. Lo sapete meglio di me, in fondo, che poteva andare diversamente. Che quella che chiamate ragione è solo uno tra i tanti modi di pensare, che quella che chiamate intelligenza è solo una tra le tante abilità che fanno di una persona una persona capace, che quello che chiamate successo è solo il frutto di un favoritismo tra simili arroccati in un monopolio costruito con la forza. La vostra esistenza e il senso della vostra vita sono contingenti proprio come i nostri, anche se voi avete costruito degli esclusivi palazzi e miti per nascondervi da questa spaventosa verità, con la cui ombra oscura, inquietante e traditrice noi invece conviviamo spalla a spalla. Forse è proprio per questo che, nonostante tutto, vi facciamo paura.
Firmato
Una perdente
message from the past
I am realizing that I grew up in another era. I was constantly told that I was smart because I was good at stories – the texts, history, the interpreting, the rhetoric. I used to throw myself into them, get an intuitive mastery of many invisible threads pulled together by a logic blended with sensitivity, refracted by instinct, summoned and dismissed when it suited me, sliced into practical logics to fit the purpose of following the rugged contours of the subject at hand.
I was praised and rewarded for that. Today, however, that is more often than not the polar opposite of what’s smart. I am learning that my supposed smarts are in fact little more than sheer, damning dumbness – antiquarian passion for the irrelevant, heuristic reasoning, slow learning, lack of analytic skills.
At best one could say that I have soft skills, which, evoking a smiling employee who is not outstandingly productive but at least improves the climate, is almost a punch in the face for somebody like me who has suffered from autism and is still far below the average ability to interact successfully with fellow humans.
I seem to be good at nothing that our culture values. But I cannot forget that once, when I was younger, I was good at something, something that I am still good at, possibly even better, but that has suddenly lost its value.
I walked into the labor market when I still felt sustained by the self-esteem instilled in me by the old-fashioned Italian education system. I boasted and even lied to potential employers, sure that when they hired me they would see all too clearly my real qualities behind the curtain of smoke of stupid tests. Cheerfully, or only a little disturbed, I received the results of tests that, based on my performance in playing video games – I had never played a video game in my life before – divined my utter mediocrity.
When I finally landed a job thanks to a recommendation from a relative, though, I had to see the hard truth that none of the habits, both intellectual and practical and in-between, that were so ingrained in me after years of positive reinforcements, were fit for the modern times. Thinking intensely was for the losers, action for the winners, a need for solitude and silence was morally similar to the self-defeating need for drugs of an addict, everything that could not be expressed in the inflexible chains of analytical logic was meaningless at best, dangerous at worst, because the machines that we as engineers were operating would break down if fed with dumb, false, heretic thoughts. Which, of course, was the incontrovertible proof that those thoughts had no value.
In short, all the ways of being and of acting that lifted me to my “100%” were outdated or banned. Trying to conform was stressful and at times even painful. I was literally nothing: under-performing, incapable of friendliness, underdog in the political games, my spirit shattered, my self-confidence in ruins.
It took sometime to see things this way, to spot what I now consider to be the root of the problem and go on accordingly. Ambition is a sweet temptation and I had to suffer a number of further blows before giving it up. I still find it hard to imagine my future, but of one thing is certain: even if nowadays being like I am is no more a legitimate source of pride nor a career driver, even if from every side I will hear hints at my inferiority with respect to the scientists, engineers and in general the rational people that rule the world of tomorrow, even if the world of yesterday to which I feel I belong will keep rejecting me on the grounds of my working class origin and all the naivety, crudeness and lack of discipline that come with it, even if my psychic illness will make it difficult to follow consistently even my own inclinations, all of this notwithstanding, I will keep valuing the value that long ago I was made to see in my messy, old-fashioned, story-centered mind. The value might not be much, I have no illusions, but it is very likely not zero either, and I aim at joining, in some way, the overcrowded ranks of those who are going to guard and cultivate the dubious and doubtful way of using the mind that I share, enjoy and love.
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data: 18 giu 2019, 23:50
oggetto: inqualificabile
Ciao,
Vivo al nono piano ma ogni tanto incurante del pericolo allento la dura disciplina mentale con cui m’impongo di non pensare a te.
All’inizio è come scivolare dolcemente in un bel sogno e mi dico, che male potrà fare? So che è solo un sogno, è come in un giorno grigio di lavoro e ristrettezze immaginare una vacanza alle Maldive.
Ma subdolo e insidioso si libera così il germe struggente del “se solo…”, se solo i tuoi pregiudizi fossero stati meno forti o meno veri, se solo fossi potuta entrare nella grazia luminosa della tua comprensione, della tua stima, del tuo affetto. Eppure no, non sono stata ammessa, né c’è ragione di sperare che lo sarò mai.
E mi ritrovo a sentire un bisogno di intrufolarmici in ogni modo, con ogni supplica, fosse anche per un secondo di dubbio o rimpianto, fosse anche fuori da quella finestra. O con parole oltraggiose da perderci la faccia come queste.
dummier than dummies
Siamo ingegneri, risolvere problemi è il nostro mestiere. Sguardo ammiccante. Un mantra che ormai ho sentito una dozzina di volte. Ma una miriade di fattori si intrecciano pazzamente e mi impediscono di portare a termine anche i passi più semplici. Premo invio per l’ennesima volta e fisso, con apatica e un po’ affascinata e superstiziosa passività, le linee di testo susseguirsi a velocità vertiginosa nella console mentre il mio codice viene testato (mentre il the test is run, e corre davvero, come corre! Ma ci vogliono comunque una decina di minuti perché il sistema, costruito da altri ingegneri molto migliori di me, determini se il mio codice funziona e regge come mattoncino di una grandissima e complessa architettura per me misteriosa). Trial and error. Ignoranza, lentezza e semplicità di spirito non mi lasciano altre vie. Non conto più i tentativi da stamattina. A ogni nuovo tentativo modifico alla cieca qualche dettaglio sperando che sia quello decisivo. I colleghi mi osservano e incoraggiano con fatalismo, funziona così, è così che si fa, ci siamo passati tutti. Hai controllato x y e z? (ovviamente no, nemmeno sapevo esistessero). Oh sì quello certo, rispondo. Finisco il nauseabondo caffè con nonchalance e mi precipito alla scrivania. X y e z sono acronimi criptici che non so decifrare. Dovrei chiedere ma tutti ne parlano con tanta certezza di essere compresi! Per fortuna nella mia cronologia riesco, ancora attraverso un laborioso trial and error, a trovare un sito che è una specie di enciclopedia interna dove le nozioni aziendali sono, se non proprio spiegate, almeno riferite. Qualcuno ha scritto una guida for dummies su come controllare y. Per x, bisogna invece contattare il team a. Z non è spiegato – almeno so che ho il diritto di non saperlo. Seguo la guida per y. Errore. Ah, ero disattenta, ho dimenticato il secondo sotto-punto del terzo punto. Che idiota. Altro che smart. Altro che ingegnere che risolve problemi. Ricomincio. Errore di nuovo. Perché?!?! Ah, ho sbagliato a digitare. Questo l’ho visto capitare anche ai migliori ingegneri. Sollievo. Ricomincio. Test riuscito. Ho controllato y, y non era il problema, un terzo della mia menzogna di prima è ora verità.
Nel frattempo è calata la sera, l’ufficio si è svuotato, gli addetti alle pulizie nelle loro divise blu hanno cominciato a sciamare indaffarati tra i tavoli e i computer. Siamo rimaste solo io e la più fanatica workaholic del mio team, e qualche genio ribelle della programmazione. In generale restare in ufficio dopo le 19 denota povertà di relazioni e lentezza, salvo doti e passione eccezionali e risapute. Lei, sola e lenta ma attenta dell’etichetta, leva l’ancora alle 19.05. Nell’uscire mi rimprovera. Io mi schermisco rispondendo sorridente che è solo per stasera, che è perché sono entrata un po’ in ritardo stamattina e perché sto giusto finendo questa cosa. Lei mi dice ok ma non fare tardi mi raccomando, e sgambetta via. Io, sola e lenta e senza onore ma piena di gioia per aver con successo portato a termine i passi elencati nella guida for dummies, voglio restare ancora un po’ a godermi il trionfo fissando il mio schermo calmo e riappacificato con il fattore y. Mi sento piena di speranza e motivazione, mi sento come se finalmente ce la sto facendo, a diventare un vero ingegnere che risolve problemi. È irrazionale, niente mi è più chiaro di prima, non ho nemmeno portato a termine la mia mansione, ma la magia di calcoli imperscrutabili e sfocianti in un incontestabile sebbene per me opacissimo ‘successo’, innescata dai miei, proprio miei, diligenti clic ora qua ora là e persino qualche semplice comando digitato, mi riempie di un altrettanto opaco ma incontestabile orgoglio. Riguardo le istruzioni, scorro velocemente su e giù la schermata in un gesto di dominio — posso giocare con te adesso, non ho più bisogno di dedicarti tutta la mia attenzione, non dipendo più da te, ti padroneggio. Con un senso di fine di una giornata di lavoro degna che non sentivo più da tempo, metto in stand by il pc, getto la spazzatura prodotta in undici ore di stress e snacks, infilo alla rinfusa i miei oggetti nello zaino ed esco sorridendo al guardiano notturno che seccato ma rassegnato alla mia smemoratezza mi ripete per l’ennesima volta che quando si esce dopo le 19 bisogna usare la porticina laterale.
La strada verso casa, crudelmente dilatata al mattino dalla pendenza e dal sonno, è ora contratta in una breve e piacevole passeggiata. Neanche il tempo di cucinare una pastasciutta, e scivolo dolcemente nei miei istinti peggiori, l’alcol, la compulsazione frenetica dei social network, e infine il sonno.
Dopo un doloroso, esitante e dubbio risveglio, si torna a rapporto: qualche biscotto trangugiato se va bene, pratiche igieniche minime ancora se va bene, una pedalata frenetica e sfiancante e, se va proprio bene, posso fare in tempo a bere un caffè e dar due linee di trucco ai miei occhi vuoti da pecora depressa prima della riunione mattutina. La riunione mattutina serve perché la squadra si aggiorni sullo stato delle varie mansioni. All’inizio, quando ero arrivata, questo si faceva con un giro di tavolo in cui ciascuno descriveva in poche parole cosa aveva fatto il giorno prima, ma prestissimo questa intrusione del discorso narrativo in prima persona era stata soppressa in quanto poco “problem-oriented” e troppo drammaturgica a favore di una lavagna bianca con alcuni post it rappresentanti i vari compiti e il loro stadio. Alle insindacabili ore 9.45 il rituale inizia con l’auto-proclamatosi leader carismatico del team che indica uno per uno i post it e l’assegnataria, se l’avanzamento c’è, che con malcelata esultanza enuncia il nome del compito e la sua nuova classificazione; e se non c’è, che spiega, con vaghezza tesa a minimizzare, le ragioni dello stallo a una platea visibilmente soddisfatta della propria momentanea relativa superiorità.
Il carisma del giovanissimo leader deriva dal suo accento posh, dalla sua autostima titanica, e, soprattutto, dal fatto che è stato il primo, e in parte l’unico, a capire il funzionamento del software usato per riflettere virtualmente la lavagna bianca e tutte le varie intricate e burocratiche statistiche da trarne al fine di pianificare la lavagna della settimana seguente. Visto che le statistiche non rappresentano niente, la pianificazione avviene a caso, ma, si sa, il caso ritoccato con qualche numero ha un’aria molto professionale. Com’è naturale per una pecorella smarrita, emotiva e suggestionabile come me, avevo una cotta per il leader, che però mi sono imposta di domare a ogni costo dopo la scottante delusione del giorno in cui mi alzai mezz’ora prima per farmi bella e lui — unica volta in mesi! — non venne in ufficio. D’altronde una semi alcolizzata insicura, poco pulita e sempre in preda a tic può farsi ben poche illusioni romantiche, e comunque lui aveva già la sua principessa, che ebbi anche l’onore di vedere in carne e ossa in tutta la sua aura di chi ce l’ha fatta quando la portò a un ballo aziendale.
Dopo giorni di trial and error, resa anche un po’ spregiudicata dall’esasperazione e quindi operando delle strategiche omissioni, riesco a finalmente a fare in modo che il mio codice superi i test. La felicità è grande, anche se, come sempre, non ho affatto le idee chiare sul perché questa ottantatreesima combinazione riesca laddove le altre ottantadue hanno fallito. Comunque, metto trionfante il mio lavoro sotto gli occhi dei colleghi per iniziare il processo di “peer-review”. Un brevissimo idillio con il successo troncato da un collega, arrivato da poco come me, che nota e fa notare come il lavoro manchi di tutto un ordine ulteriore di test necessari: e stavolta non si tratta di premere un pulsante e sperare nel successo, ma di scriverli, da zero. Inutile rievocare le inutili settimane passate a copia-incollare test analoghi trovati nei database aziendali, a riscontrarne e mascherarne l’inadeguatezza, a ricercare giustificazioni per la loro riduzione. Settimane coronate da un localizzato successo in quanto il pigro collega, a questo secondo giro, non fiuta nemmeno la scarsa qualità del prodotto e se ne dice soddisfatto. Peccato che a fiutarla, pochissimo dopo, sia un altro team in un altro continente, alle cui oneste e sensate richieste di correzioni io non trovo di meglio da opporre che un panico vittimista. La voce seria, pacata e gentile di questa collega d’oltreoceano sarebbe rimasta con me fino all’ultimo giorno di lavoro, sempre reiterando la sua giusta richiesta, razionalità inconsapevole della degradazione della mia volontà e del mio status. Sì, perché, poco dopo questo clamoroso fallimento coronato da una riunione risolutiva con tanto di superiori, in cui esso fu il tema principale — la mia umiliazione fu totale e proporzionali i gongolii dei più insicuri tra i miei pari —, fui declassata al livello professionale inferiore, perdendo, non ancora lo stipendio da ingegnere, ma le funzioni.
Tutti dicono di avere, come tutti, la sindrome dell’impostore, perché questo è un posto così pieno di persone geniali. Io credo che il mio caso sia un po’ diverso, perché non solo non capisco (nessuno capisce), non solo non mi oriento (molti non si orientano), non solo non risolvo problemi (alcuni altri non fanno nemmeno questo), ma nemmeno apprezzo e valorizzo la fortuna, al giorno d’oggi inestimabile, di avere un posto di lavoro ben pagato e abbastanza prestigioso. Non è una scelta, anzi vorrei apprezzare ma non riesco che a odiare questi inestricabili grovigli di logica e burocrazia che sorpassano le mie capacità di comprensione e azione di così tanto da spezzarmi il cuore, un cuore ancora troppo affezionato all’idea di battere per un cervello intelligente.
Il peso dell’umiliazione è minore del sollievo di avere finalmente la sensazione di saper fare quel che ci si aspetta da me. Inoltre ho superato la soglia della vergogna e non ho più così tanta paura a mostrare le mie debolezze ed ignoranze. Sono colei che stava fallendo e ha avuto il coraggio di ammetterlo, e sento che almeno un po’ di stima mi sia dovuta per questo. Mi sento al controllo, mi sento giusta. Le dita volano agili e sicure da un tasto all’altro, alla mia console sono come un abile aviatore, i comandi rispondono docili al mio esperto volere, tutto fila liscio, decollo tragitto atterraggio (applausi), le occasionali perturbazioni le so gestire e superare. Uno dopo l’altro i miei task transumano da una colonna all’altra dello schema di avanzamento, come bovini obbedienti. I am delivering! E anche a passo più che accettabile. A volte resto in ufficio fino a mezzanotte per spremere fino all’ultima goccia la mia nuova percepita eccellenza.
Ogni tanto si tratta solo di aggiungere alla buona migliaia di nuovi elementi a un database, posso farlo quasi senza pensare. Presto però un giovane collega di livello infimo introduce un’acclamata innovazione nel processo per renderlo più automatizzato, e io vado in crisi – gli automatismi della mente e delle dita appresi con fatica sono ormai vani, devo invece imparare a usare un complicato e insidioso foglio Excel. Apprendo anche che il mio lavoro precedente è di qualità troppo bassa. Però a nessuno importa più di tanto e io vengo riassegnata a una mansione più “ingegneristica”.
Sono le 18, è venerdì. Pare che tutto vada per il meglio. Il mio codice sembra funzionare, ha superato tutti i controlli preliminari: è pronto per diventare attivo. So che è un momento delicato ma non me curo troppo, certo all’inizio sudavo freddo in questa fase pericolosa, ma adesso, con tutta la mia esperienza, sono tranquilla e pregusto il distendersi dei nervi quando tutto sarà finito e tornerò a casa e berrò una birra e passerò l’aspirapolvere per la prima volta in mesi perché i miei genitori domani vengono a trovarmi. Digito il comando cruciale. Qualcosa si inceppa. C’è quello che il software chiama un conflitto. Resto calma. C’è una sezione nel nostro vangelo for dummies proprio su come risolvere i conflitti come questo. La recupero e comincio a seguire i passi elencati. Ma i punti sono parole astratte che si librano ben al disopra delle sabbie mobili di codice errori e warnings in cui sono caduta. Non mi oriento nella schermata ribelle, il nuovo formato in cui sono stata trasportata come in un maleficio non risponde ai miei disperati tentativi di comando e finanche di umile dialogo. Come nei sogni in cui devo correre ma ho dimenticato, o non ho mai saputo, come si fa. E allora, nei sogni, faccio movimenti locomotori impacciati e strani, a quattro zampe, sulla schiena, all’indietro. Così nella troppo reale sera di dicembre comincio a premere tutti i tasti a caso, solo per uscire, in un modo o nell’altro, dall’incubo. Alla fine, non so come, ci riesco, e sebbene l’indelebile cronologia porti tutte le tracce dell’assurdo svarione mi sento sopravvissuta. Tiro un sospiro e passo a un altro compito.
Come ultima cosa prima di lasciare l’ufficio, per compilare il report settimanale, controllo se il mio codice funziona correttamente. No, non funziona. Pondero se truccare il report e andare a casa. Ma sì. Perché no. Probabilmente non lo vedo funzionante per una questione di tempo o per un bug dell’interfaccia. Per scrupolo, faccio un controllo un po’ più approfondito. Il mio codice pare aver superato tutti gli stadi di implementazione. Allora perché non fa quel che dovrebbe? è strano. Apro il codice nella versione recepita dal grande sistema di controlli finali automatici e attivazione. Quasi non lo riconosco. Non è il codice che io ho scritto e testato, non solo almeno – un’intera ulteriore parte dall’origine misteriosa si è materializzata mettendo a repentaglio con modifiche avventate e senza senso le funzionalità di base del sistema globale. IL SISTEMA GLOBALE. Sono le 19.30 ora di Greenwich e in tutto il mondo qualcosa di così grande e importante è in tilt per colpa mia.
Non persi il posto quella sera. Riversando panico e rancore in suppliche insistenti a tappeto nei gruppi chat aziendali trovai, tramite un paterno collega, un ingegnere in un altro paese disposto ad aiutarmi e disfare quel che avevo fatto. Il fattaccio fu abbastanza facilmente dimenticato, e la sua gravità era stata comunque attutita da ulteriori checkpoint nella catena di attivazione che avevano infine impedito al codice impazzito di disabilitare il servizio al livello del consumatore.
Rimasi qualche altro mese, giusto in tempo per scoprire che molto del lavoro che avevo svolto nel mio periodo di percepita eccellenza era in realtà viziato, errato, da rifare – e disfarne parte io stessa. Il fatto che le umiliazioni fossero scontate non le rendeva meno dolorose. Mi licenziai perché non potevo più sopportare il loro martellamento, continuo, sicuro come il sorgere del sole. La compagnia ha perso molte migliaia di sterline per questa rincoglionita incapace che voleva fare carriera in un mondo in cui non era nemmeno capace di reggersi in piedi. La ringoglionita in questione ha perso la credenza, illusoria forse ma balsamica, di possedere i doni spirituali che il nostro presente chiama intelligenza.
zanzara
Dammi il tuo braccio sicuro e distinto,
fatto affusolato, lungo e armonioso
da una natura nel tempo graziosa,
e fatto forte, flessibile e svelto
dal tuo volere che pare divino
da qui fuori, per noi piccoli insetti.
Voglio sentire la tua pelle umana
con le squame scure, e che il mio peso,
senza rilievo nel mondo complesso,
assurga all’altezza celeste del tuo,
a riposo le mie ali inutili
e stanche rubando un frammento
della tua evoluzione gloriosa.
Solo un basso istinto di parassita
mi è stato dato, per portare avanti
nello spazio-tempo senza certezze
le mie inconsistenti ambizioni.
Voglio il tuo corpo, voglio il tuo spirito,
voglio volare oltre ai baratri
di differenze di specie e di storia;
ma non ho un sentire e parole elevati,
non corpo bello né anima ricca,
ho solo il mio pungiglione molesto,
con cui non un millilitro d’amore
bensì qualche goccia fuori contesto
posso succhiarti, indesiderata,
prima che tu, irritato e deciso
mi ricacci lontano nel vento
con un colpo di mano veloce.
amori immorali
Ci hanno insegnato che esistono alcuni modi giusti di amare. Possiamo amare solo chi ci ama. Altrimenti, indici morali ci si puntano contro da ogni lato, ci indicano l’errore, la perversione, ci condannano al disprezzo, all’odio, alla tortura di sradicare quanto abbiamo di più caro dal nostro animo. Non è concepibile pensare alternative, non sembra possibile sfidare un tabù che si confonde con la struttura della natura umana e del reale. Uno spirito tanto mal fatto da perseverare nel volere ciò che non può essere voluto è sempre in lotta contro tutto e tutti, una lotta insensata, illegittima, sporca, impari, una lotta contro gli elementi, contro l’ordine delle cose. Ogni voce dice che non bisogna lottare, e perché continua? La lingua stessa, la lingua di un buonsenso millenario, lotta contro di lui e gli impedisce di articolare le sue ragioni. Non gli resta nessun sostegno eccetto la sua incrollabile certezza di amare, non come un diritto sacro, non come una qualità morale, solo come un nudo, chiaro, ostinato fatto davanti al quale tutto il resto del suo mondo si piega. Un fatto di per sé impotente a suscitare qualsiasi giustificazione, e tantomeno reazioni che lo capiscano, lo accettino, lo valorizzino, lo accolgano nei mondi degli altri. Un fatto solitario, muto, indifeso, rigettato da ogni coerenza, da ogni ragione. Eppure presente, radicato, duro. Un grumo torbido, brutto secondo ogni canone, malato secondo secondo ogni medicina, che grida vendetta e reclama a gran voce per sé la somma bellezza e il sommo valore. Perché della bellezza e del valore ha qualcosa, solo che, povero lui, è nato e ha attecchito dove non doveva, su un terreno proibito. Dal momento che questa lotta maledetta mi è stata appioppata dalla vita, dal momento che l’amore che porto è quanto di più profondo esista in me, non ho scelta, la conduco, e voglio condurla fino in fondo, voglio mettere in dubbio le infinite voci che mi condannano, gli infiniti fatti che mi confutano, gli infiniti princìpi in nome dei quali sono bandita. Voglio essere felice e anche se so che questa fortuna mi è preclusa voglio urlare il mio desiderio e voglio poter farlo senza che intorno a me ci si tappi le orecchie con pietoso disgusto. Voglio che sia possibile far capire agli altri il senso del mio amore, dei miei amori, voglio costruire questo senso e dargli un posto nel mondo, fosse anche un posto un po’ rintanato.
Pepi
Ihr Zimmermädchen seid gewohnt, durch das Schlüsselloch zu spionieren, und davon behaltet ihr die Denkweise, von einer Kleinigkeit, die ihr wirklich seht, ebenso großartig wie falsch auf das Ganze zu schließen.
Franz Kafka, Das Schloß
Ours is a world of hierarchies. A world partitioned by social differences so that it is fairly unlikely for a female, low class, rural area born person to get access to the upper, ruling urban perspectives. It is as if we were looking at the world from Kafka’s Schlüsselloch mentioned above: only decontextualized hints reach our eyes, and our imagination, our unbridled fantasy is the only resource we can rely on to build ourselves a vision. Even if we later in life get the opportunity to see a bigger picture of the world, our ways of thinking and, above all, feeling, that lay deep down inside our minds and behavior, are unchangeably molded into the shape of that Schlüsselloch and its distorting, concealing edges. We can’t get out from our dark and narrow dormitory on our own – and it is the dim consciousness of this that makes us crave ein Held, ein Mädchenbefreier. Most of the times he comes to our rescue, like K. in Kafka’s novel, unwittingly. He does a random thing without noticing or even without giving a shit, a bit of attention out of mere curiosity, a polite smile, and act of kindness, a joke. A spark is lit in us, though: the vague desire of a different life starts burning and spreading fast and strong in the brush of our psyche. The desire turns into hope, the hope turns into confidence. We start feeling entitled to what earlier looked altogether unattainable. We are transformed, transfigured. But, alas, we are not ready. Too short a notice has been given, for such a big and difficult enterprise. Like the waitress Pepi when she receives the announcement that she shall start in the capacity of head waitress in a couple of hours, and rushes in the search for appropriate clothes and hairdressing – before it was meaningless to her to make efforts to be good looking, because nobody was going to see them waitresses except for the even ruder kitchen personnel; we, who have never before cared in the least for our beauty, begin now frantically to try and improve our looks in any way that our lack of experience and naiveness make us see fit. Like in her case, the result is very far from satisfactory: we lack the resources to make a good job in this field. At first, like Pepi, we think that the result is pretty dignified, even if not perfect. We might, as Pepi does, complain about a bad pair of shoes, wishfully implying that that is the worst defect in our persona. We think that we are almost there, we’ve almost done it! We don’t yet suspect how much there was still left undone. Proud of our achievements, which are indeed remarkable given our point of departure and the short time taken, we step into the main room feeling like soon to be princesses. An imagined sound of triumph fills our ears and makes us dumb to the murmurs and the giggles. We’re being a success! We are breezy and very kind to everybody. We feel light, free from the past, our own and that of the world, free to criticize it and to play with it. Pepi’s honeymoon lasted four days. When it was over, she imputed its abrupt end to bad luck – had this and that not happened, I would certainly have done it, I would have realized my dream and never, never had had to go back to the dark and narrow dormitory. We use a similar strategy sometimes: it makes it less painful, it makes it possible for us to retain some of the self-esteem that the great adventure had endowed us with. But often, and maybe luckily, we cannot be content with that. We look for a better explanation, we place ourselves, like Pepi does, in a situation where more about the causes of our failures will be revealed. As if pushed by an unacknowledged desire for truth, she finds herself telling her hero, K., all her story as she saw it. She starts by saying she is reconciled with her fate now, because it was not due to her lack of capability or effort that she failed. K. ruthlessly contradicts her. What a wild fantasy you have, he tells her. Her way of thinking, cultivated in the dark and narrow dormitory, is at best weird in the free air. Not a wonder that she failed to keep the head waitress job, considering that she held similar ideas. Even the dress and the hairstyle of which she is so proud of, he continues, are but hideous products of that dark narrow dormitory: they might have looked beautiful there, but here, in the free air, everybody laughs at them. Many times Reality has rebuked me with similar words when I looked back more cooly at one of my past enterprises. Unfortunately, we’ll never know what happened to Pepi in the end, because Kafka’s novel is unfinished. She proposes to bring a disgraced K. in the dark and narrow dormitory with her and her fellow waitresses, without success. So, we can assume that she goes back to the stale air and the miserable life to which the waitresses are destined to. She would hide the dress in a corner never to see it again, lest she be painfully reminded of her short and forever gone days of glory. But in the real world, there is no going back. Once the intoxication of freedom and love and self-enhancement is experienced, no matter how much unsuccessful its endeavors and painful its hangover, a whole new perspective opens up in front of us. We realize our limitations, we see how far we are from the top, but now, curiously, we also feel that we have a right to get there, because we had the ardor to desire it.
All the German quotes are drawn from chapter 20 of Das Schloß, the text of which can be found at this link: http://www.zeno.org/Literatur/M/Kafka,+Franz/Romane/Das+Schlo%C3%9F/Das+zwanzigste+Kapitel