Cercando di capire perché la mia esperienza universitaria sia andata così male

Cercando di capire con onestà perché la mia esperienza universitaria sia andata così male, mi trovo davanti un groviglio di aspirazioni, istituzioni, piani di studio, programmi d’esame, titoli, nomi e cognomi, righe lette, scorse e scritte, ma quel che invece manca, e quel che in fondo cerco, concetti, significati, sono rimasti confinati nel mondo mitico di prima, dei libri di testo e dei banchi di scuola — il mondo ingiallito e squalificato delle nozioni di base e generali, delle verifiche e delle interrogazioni. La domanda è allora perché non sono mai cresciuta? Non ho saputo crescere, non l’ho voluto, un misto dei due?

Continuare a cercare un senso in un caotico e cupo passato è perseveranza nell’errore, impresa salvifica o ultima àncora di un’identità ormai fossilizzata che si dissolverebbe se dovesse abbandonare senza meta gli ormeggi?

A volte, infatti, ipotizzo che il mio problema sia che appartengo a un’altra epoca e se, per consolarmi e legittimarmi, ogni tanto la penso come una coorte o un contesto storico-sociale, in realtà l’unica cosa di cui ho la certezza è che si tratta di un’epoca biografica, l’epoca dei libri di testo e dei banchi di scuola.

Quando la transizione tra questo tempo e il tempo dell’università avvenne non me ne resi conto, e non sospettai niente per molti anni. Esame dopo esame, approfondimento dopo approfondimento, seguendo norme captate nell’implicito di lodi e biasimi cercavo una vocazione, una passione, una specializzazione. Assumevo che fosse alla mia portata perché anche questo captavo nella combinazione di buoni voti, incoraggiamenti, storie di successo che popolavano i miei semestri.

Quindi, ogni volta che sbattevo contro un muro di disillusione e scoramento, davo per scontato che la strada giusta dovesse essere dietro al prossimo angolo, che una virata di qualche grado fosse quel che serviva e quel che bastava per imboccare la corrente a cui ero destinata. Scacco dopo scacco, raccontavo a me e agli altri di un sano amore per l’esplorazione, un’inquietudine figlia di curiosità e intraprendenza, e per qualche anno risultavo convincente. Mi crogiolavo in una vaga retorica brillante e audace senza mai notare l’aspetto patologico che andava prendendo la sottostante trama contorta, inconcludente e ciarlatana.

Non potevo vedere nient’altro che quella ricerca di quel successo universitario che sentivo sempre meno come un destino sempre di più come un dovuto, a me da me, da me a me. Mi impegnavo, percepivo che lo stavo facendo nel modo sbagliato, smettevo di impegnarmi e ottenevo lo stesso relativi, insipidi successi, che sortivano l’effetto di convincermi che applicando i miei talenti là dove anche la mia vocazione sarebbe stata, la soddisfazione e il senso di spiccare il volo non avrebbero potuto sottrarsi. Passai dalla storia della matematica alla filosofia teoretica alla sociologia e la comunicazione politica all’informatica.

Ripercorrendo nella mente il mio percorso dopo il suo inglorioso aborto, a volte l’ho interpretato in questi termini: la vocazione che cercavo non esisteva, era solo una giustificazione escogitata dalla pigrizia per spingere indefinitamente più in là nel futuro il momento in cui avrei iniziato a impegnarmi davvero. Oppure: i concetti che usavo per misurare le mie azioni erano ingenui ed estremi, più finezza etica e più capacità di compromesso mi avrebbero fatto raggiungere col tempo e con la giusta combinazione di tenacia e flessibilità un successo autentico perché riflettuto, sudato, insomma guadagnato. Eppure l’inganno, se di un inganno si trattava, era ben tenace, perché a ogni disillusione seguiva provvidenziale una nuova passione ben più forte di quanto ricordassi la precedente.

Riflessione sulle assunzioni

Da un lato, a parole, sento spessissimo nel contesto di colloqui di lavoro enfatizzare l’importanza di imparare dai fallimenti, investire sulla propria formazione, sperimentare, mettersi in questione, rifiutare il conformismo opportunistico e simili.

A parole.

Perché poi, nei fatti, mi pare che si tenda a penalizzare:

– Chi vede e lascia vedere i propri fallimenti come un momento doloroso ma imprescindibile, costruttivo e non squalificante, a fronte di chi, invece, è abile nel nascondere i fallimenti in cui è incorso e costruire narrazioni tutte incentrate sulla nozione di successo come valore supremo e ultimo, venuto meno magari quella volta lì tanto tempo fa in quel contesto di poco conto solo per essere trionfalmente e definitivamente riconquistato da un eroe in tal modo fortificato e immunizzato.

– Chi investe sulla propria formazione senza potersi permettere lo sforzo finanziario necessario per master in cui la funzione di certificazione è comunque in genere preponderante rispetto a quella di formazione, e allora invece di investire migliaia di euro investe tempo ed energia; e questo investimento, che si traduce in un miglioramento di quel che sa fare e di quel che sa pensare, sfugge tra le maglie larghe di sistemi di valutazione dei candidati che privilegiano i nomi altisonanti di grandi aziende e università prestigiose a scapito delle effettive capacità, misurate con poche domande trabocchetto standardizzate, vaghe dichiarazioni motivazionali e giochini. D’altronde, cercare di capire davvero cosa sa fare un candidato è più costoso, presupporre un generico ideale trasversale del “tipo sveglio” conviene. E allora il tempo passato a imparare e basta è tempo sprecato, sei stato “fermo” mentre gli altri si davano da fare, hai peccato di ignavia perché non hai acquistato per i tuoi sforzi un bollino di autenticità.

– Chi cerca il cambiamento senza avere una rete di sicurezza, taciuto presupposto di ogni audacia e innovazione.

– Chi si interroga autenticamente sui propri limiti invece di rimuginare e abbellire continuamente i gratificanti ricordi di complimenti, feedback positivi, risultati ottimi. Chi vede i propri errori e ne assume la responsabilità invece di attribuirli ad altri o ineluttabili circostanze. Se il fallimento si sta facendo pian piano strada tra quel che è lecito nominare, l’errore, a meno che non sia una minuzia innocente o inconsapevole, è un mostro taboo. Quando i maestri dell’arte dei colloqui di lavoro dimostrano la massima perfezione del giochino di elencare alcuni difetti e alcuni pregi, non mancano mai di elencare tra i pregi doti brillanti e originali come la capacità di risolvere problemi o l’intelligenza emotiva, né mancano mai di enumerare difetti dall’ambigua negatività segnalata in genere dall’avverbio troppo, come un’eccessiva sensibilità, un’eccessiva abnegazione, e il più classico in assoluto, il perfezionismo.

Ogni colloquio di lavoro, in fondo, funziona come un test di auto-promozione e la capacità di svolgere il lavoro in questione perde sempre più peso a favore della capacità di “vendersi”.

Ora, io non condanno l’auto-promozione in sé, è una pratica necessaria e un’abilità utile; ma mi pare che ci stiamo spingendo un po’ troppo in là se rischiamo di finire per renderla il solo fattore rilevante per accedere a qualsiasi ruolo – con risultati deleteri sia sulla qualità del modo in cui questi ruoli sono svolti, sia più in generale sul patrimonio di diversità di modi di pensare a di agire delle nostre società.

come se la realtà mi fosse scivolata via tra le dita

è come se la realtà mi fosse scivolata via tra le dita. il mio futuro è del tutto scollegato dal mio passato, e questo origina una tensione lacerante. vivo e agisco in un mondo del tutto estraneo, senza agganci, che posso provare a comprendere ma di cui non posso sentire niente. sulle mie spalle intanto grava il peso, condannato allo stato di peso morto, di una vita intera di valori, gusti, legami, sogni interrotti e rimossi. per un po’ ho oscuramente anelato a una conciliazione che ora vedo come illusoria e impossibile. il salto è stato fatto, i ponti bruciati, non c’è modo di tornare indietro. sono disperata. devo, è imperativo, andare avanti, ma il dolore della perdita che mi ero illusa fosse solo un arrivederci è straziante. la perdita di tutti e di tutto quel che è stato ed è davvero importante per me. le persone che ho stimato e amato, le ambizioni che ho coltivato, la cultura che mi forniva, senza che lo apprezzassi appieno, la mia identità. ora non sono più una persona, non sono più nessuno, sono un animale, un organismo dedito alla sopravvivenza e niente di più. e non riesco a sopportarlo. a volte mi sembra di non voler più nemmeno sopravvivere, a questo punto. sopravvivere aspettando un miracolo impossibile, un miracolo che non posso più costruire perché ho buttato a mare gli strumenti e le istruzioni. un’eterna dannazione, punizione per la superbia di aver pensato che si potesse impunetente rinascere una seconda volta. ho provato ad avere più di una vita, e ho distrutto la sola, preziosissima che avevo, privandola del terreno solo reggendosi sul quale poteva svilupparsi verso il cielo. sono diventata una inutile piantina artificiale da gettare senza rimorso nella spazzatura durante le pulizie di primavera.

Cover letter per il girone dei falliti

Ho passato gli ultimi mesi a scrivere cover letter, personal statement, lettere di raccomandazione, ecc., in cui con più disgusto che fatica mi sono trovata a dover incorniciare, decorare, condire e montare la mia storia in modo da renderla appetibile a giurie di fini intenditori di personalità promettenti e grandi potenziali. Pare che oggi se non sai raffigurare la tua vita come una storiella edificante in cui sei l’eroe che trionfa sul male, non ti assume nessuno. (Forse è sempre stato un po’ così, ma in modo più implicito). Oggi però, litigando, mi sono accorta che dimenticare e minimizzare i vizi per queste fiabe ha l’effetto di concedere loro ancora più spazio per spadroneggiare incontrollati nella mia persona tristemente reale.

Così, ho deciso di dedicare questa sera proprio ai difetti, ai problemi e ai fallimenti, e raccontare e raccontarmi la storia dalla loro prospettiva. Perché è facile dire che la realtà è sempre un misto di bene e male; perché è un misto talmente intimo, e perché la memoria dei nostri motivi e dei nostri pensieri è talmente lacunosa, che per quanto ne so con certezza poteva essere quasi tutto bene o quasi tutto male, e solo la forzatura di valutare l’invalutabile costringe a scegliere in quale dei due contenitori piazzare questo e quello. Ci insegnano a costruire narrazioni positive e ispirazionali, e per il gusto di fare l’esatto opposto dopo mesi di ligia obbedienza, mi sono presa la libertà di riflettermi per il tempo di qualche pagina nello specchio scuro del mio anti-potenziale.

Nel corso della mia vita universitaria e lavorativa ho avuto un discreto numero di ottime opportunità, ma per un misto di ingenuità e arroganza le ho sprecate tutte. Non in malafede, ma in nome di principi e valori mal compresi e peggio applicati, di sogni sventati, fantasticherie senza fondamento. Non ho saputo mai trovare alle parole il loro senso sensato, quel che mi dicevano affermazioni, comandi e consigli erano proposizioni astratte, assolute, senza attenuanti e contesto, e non potevo farci niente. La ragionevolezza, un’estranea.

Sono colpevole, sono innocente? Difficile dirlo, se ci penso con onestà mi sembra di aver il più delle volte agito davvero in vista del meglio per come lo intendevo. Ma forse un po’ più di riflessione, un po’ più di distacco, un po’ di umiltà nel mettere in dubbio le mie credenze, avrebbero potuto a un certo punto fermarmi e farmi cambiare rotta. Eppure tutt’ora trovo difficile adattarmi all’idea di aver sbagliato in modo così fondamentale, ora, dopo aver perso tutto. Difficile allora che prima, quando ancora sembravo avere il vento in poppa e orizzonti in lontananza, avessi potuto davvero spogliarmi delle mie fissazioni. Come un cane o un ratto da laboratorio, senza punizioni non potevo apprendere come funzionava il mondo, il mondo del potere. Quindi ora passerò il resto dei miei giorni a prendermela con il mondo per non avermi punita a dovere, per non avermi punita prima, per avermi punita solo tutto d’un colpo quando ormai era troppo tardi. O forse sarà il caso di cominciare a prendermela con me stessa, perché l’inconsapevolezza stessa in fondo è una colpa, perché sono stata un’incosciente (e pensare che contemplavo con orgoglio il mio amore del rischio, e mi sembrava buffo che gli altri non lo condividessero, mi sentivo superiore).

Fai quel che ti pare, tanto tutto si risolverà, se credi in te e in quel che fai. Come se per credere non servissero certe condizioni, come se credere avesse in sé la propria origine e forza. Come se i riscontri del mondo e un tetto sopra la testa fossero inessenziali rispetto al credere. E allora andavo avanti, pensando solo al credere, a sviscerarlo, a trarne tutte le conseguenze e ad agire sulla loro base, senza dare il minimo peso a quelle altre cose, perché pensarci è superficiale, e poi ci pensano tutti, e bisogna distinguersi. E qualche volta funzionava, fortuna del principiante o fascino del temerario, o ancora spacciarsi per originalità, innovazione, intraprendenza. Se solo avesse funzionato meno. Immagino però anche che ai giovanotti si perdonino facilmente certi atteggiamenti e certe incomprensioni, che poi invece negli adulti diventano peccati mortali.

Non faccio parte dei pochi privilegiati che questo festino di idee e idee e idee aggrovigliate su se stesse con poche flebili radici nel mondo potrebbero permetterselo. E parlo proprio di permetterselo finanziariamente. Perché interrogarsi su come investire risorse scarse costringe senz’altro a spodestare le idee e saper piegarle al reale, anche se si è per temperamento portati a fantasticare. (Tuttavia, a onor del vero, devo aggiungere che secondo la mia esperienza coloro che potrebbero permetterselo tendono a non avere nemmeno la tentazione, in virtù di qualche misterioso influsso benefico della ricchezza e della frequentazione dei ricchi sul buon senso). Io, però, sostenni tutti gli studi universitari con una borsa di studio, e quindi fui posta artificialmente nella condizione funesta di avere questa inclinazione autodistruttiva, e in più di potermela permettere, combinazione infausta e non fisiologica.

Dunque, i miei studi universitari in filosofia furono una continua giravolta di idee, ora credo in questo, ora credo in quello, e dato che quello contraddice il primo mi sono convertita, e quello è il bene e quell’altro è un brutto errore con cui non voglio più avere a che fare. Non rispettavo niente e nessuno, perché le idee non si rispettano, le idee sono vere o false, giuste o sbagliate, punto. Quando mi resi conto che non si poteva farla così semplice, che bisognava coprire con perifrasi complesse ogni idea e dare a ognuna cittadinanza in discorsi eruditi e tutti sfumature, decisi che allora tanto valeva postulare che un’idea vale l’altra e mi misi a studiare manoscritti settecenteschi di ottica in latino che non comprendevo nemmeno. Alla fine, mi innamorai della profondità evocativa degli idealisti tedeschi, ma presto capii che sapevo decifrarvi ben poco di particolarmente significativo, pertanto decisi di non tirarla per le lunghe e laurearmi al più presto sfruttando tutti i trucchetti estetici e stilistici per far apparire un’accozzaglia di riassunti e considerazioni vaghe un prodotto di ricerca. Ottenni il massimo dei voti, ma non rimisi mai più piede in quel dipartimento.

Appurato che questa facoltà non faceva per me, ebbi l’unica idea veramente buona della mia vita, quella di iscrivermi a sociologia. Vi si possono distinguere, almeno entro certi limiti, affermazioni giuste da affermazioni errate, c’è una certa continuità, una certa accumulazione del sapere, i docenti sono in genere più amichevoli, si può parlare più o meno delle stesse cose di cui parlano i filosofi ma senza essere zittiti del tutto dal peso della tradizione e dell’erudizione, e soprattutto non si presuppone più che la logica, la morale e il gusto debbano essere gli stessi per tutti e se non ci arrivi hai un problema e sei un po’ meno umano. Questo mi piaceva, mi piaceva capire come le idee fossero molto meno indipendenti di quanto tendessero a farmi credere, e come tanti mondi diversi esistessero dentro al mondo. Era come una moltiplicazione caleidoscopica e una visione finalmente tridimensionale delle idee. Certo, era ancora solo un’idea per me. Me ne sentivo illuminata e ispirata, ed ero entusiasta della mia scelta. C’era il seme di una comprensione che, se fosse stata più profonda, avrebbe potuto forse salvarmi. Ma questo nuovo modo di pensare mi piaceva così tanto da concentrare tutte le energie sul suo lato, appunto, ideale.

Fui capace di godermi appieno tutto questo solo per un semestre, durante il quale peraltro quasi tutti i corsi erano di materie ausiliarie. Poi iniziarono problemi personali e di salute, e cominciai a rimandare e rimandare il serio impegno nello studio. Lo rimandai per tre anni, e lo sto ancora rimandando. Non che formalmente fossi ferma. Davo gli esami, e prendevo anche spesso buoni voti, ma non frequentavo i corsi e studiavo con sufficienza, giusto il necessario, i programmi non mi piacevano troppo ma non facevo alcuno sforzo per approfondire nelle direzioni che invece suscitavano la mia passione, perché avevo altre priorità. Arrivai completamente impreparata al momento della scelta della specializzazione, e, sulla base di motivi impressionistici e di alcuni corsi online di informatica che avevo fatto per ammazzare il tempo su un letto d’ospedale, decisi di specializzarmi in big data e studio della comunicazione politica.

Fui inserita in un laboratorio eccellente dal punto di vista umano e organizzativo, dove imparavo un’infinità di cose sul mondo della ricerca e vi lavoravo con grandi soddisfazioni. Le prospettive erano brillanti, e per un po’ smisi di pensare troppo alle idee, sempre occupata con i molti progetti in corso. Non durò ahimé che alcuni mesi, dopo i quali ricominciai a interrogarmi con insistenza su come potevo inserire la mia fede ispirazionale nella progettualità concreta. Vedevo le enormi opportunità del posto dove ero finita, e capivo che sarebbe stato idiota abbandonarlo. Al tempo stesso, tuttavia, non riuscivo a trovare nei nostri progetti quegli interessi teorici che avevo più a cuore. Credo che a un certo punto mi fossi rassegnata a malincuore a proseguire con decisione sulla linea dello studio della comunicazione politica, e rimandare a dopo e al tempo libero e a quando fossi sistemata e maturata il perseguimento delle mie linee preferite. Ecco un punto in cui avrei potuto salvarmi. Non c’era connessione, ancora, tra l’azione e la sua comprensione, ma sarebbe arrivata dopo, e avrei ringraziato di aver preso quasi senza saperlo una decisione tanto saggia. Eppure forse questa decisione era destinata sfuggirmi, perché l’insoddisfazione che covavo mi spingeva a cercare alternative. E alla prima alternativa che trovai, mi ci tuffai senza pensarci due volte.

Si trattava di un posto di lavoro molto ben pagato come ingegnere informatico. L’idea era, uso questa opportunità per sfuggire alle costrizioni accademiche, guadagno, uso tempo libero e ferie per gli studi sociologici che mi piacciono in completa libertà. Mandai tutto a quel paese e abbandonai l’università. Imbottita di psicofarmaci, con grossi problemi relazionali e senza un talento informatico tale da controbilanciare le prime due, presto divenne tuttavia chiaro che non ce l’avrei fatta a mantenere il mio posto. Fui retrocessa a mansioni manuali, ma una manager dal cuore d’oro allontanava l’ombra del licenziamento concedendomi svariati aiuti. Un altro momento in cui avrei dovuto cogliere l’opportunità con gratitudine. E un altro momento in cui invece feci esattamente l’opposto. Decisi che, dato che questo lavoro stava intaccando il mio benessere psicologico e la mia autostima (beni effimeri di cui oggi, mortificata, umiliata e nevrotica, mi strappo i capelli per aver non aver compreso la natura relativissima), che la cosa migliore da fare fosse non raddoppiare gli sforzi, non vedere un medico migliore che potesse aiutarmi a uscire dalla spirale di psicofarmaci mal dosati e alcolismo in cui ero scivolata, non migliorare la mia organizzazione del tempo, non trasferirmi in una casa più piccola ma più vicina al posto di lavoro, bensì abbandonare il lavoro con un salto nel vuoto sperando di trovare qualche università disposta a darmi un’altra ennesima chance di realizzare i miei “sogni” e seguire i miei interessi. Devo dire che in questo frangente fui anche istigata da molte persone a me vicine, ignare o sviate dalla loro inesperienza del mercato del lavoro e dalla mia auto-commiserazione, che con forza sostennero, forse persino formularono per la prima volta, l’incriminato proposito perdente e autolesionista, preoccupate per una mia salute che non sarebbe stata certo migliorata dalla trafila di umiliazioni e batoste e dal futuro compromesso che dovevano seguirne.

La mia università era in effetti disposta a riprendermi per gli ultimi sei mesi, con uno stage in Francia per completare la tesi e laurearmi. Per il futuro, la sempre disponibile direttrice del laboratorio dove mi ero specializzata mi suggerì di preparare un progetto per concorrere a una posizione di dottorato molto prestigiosa. Era un progetto focalizzato sull’applicazione di metodi di analisi dati allo studio della comunicazione politica: un ritorno a prima della mia assunzione. L’istituzione era molto prestigiosa, quindi non ci pensai due volte… sebbene fossi consapevole della contraddizione che celavo. Mi arrendevo a sacrificare le mie passioni *solo* per il prestigio dell’istituzione, ossia, non avrei mai intrapreso quel percorso in un’altra istituzione. Così dicevo a me stessa, percependo al tempo stesso che si trattava di un ragionamento non troppo in linea con il politicamente corretto accademico, e perciò lo tenni nascosto, e, ipso facto, feci intendere alla professoressa di essere invece desiderosa di svolgere quel progetto in quanto tale, non importa dove. E d’altronde, ci avevo dedicato due interi mesi di lavoro, e per di più avevo concordato l’intero tema del mio stage francese e una nuova tesi di laurea in base a esso. Dall’esterno, a lei, appariva come il ragionevole sforzo di un’alacre studentessa desiderosa di iniziare un dottorato. Per me, era una grossa (e, per la me di ora, sconsiderata) scommessa.

Una scommessa che persi, perché non vinsi il concorso. (Come se non bastasse, la mattina dopo la sera che lo seppi persi il volo e non mi presentai al lavoro – seconda settimana appena – contrariando il mio nuovo capo francese.) Non sapevo cosa fare, mi sembrava che gli errori grossi fossero stati tutti a monte. La “cosa giusta” mi appariva così inconcepibile. Avevo fatto tutto quel che avevo fatto negli ultimi anni solo per conquistare la libertà di seguire le mie idee, e ora, così, avrei dovuto rinchiudermi in un tipo di sforzo che mi appassionava poco ma che al tempo stesso richiedeva passione, lontana dal vago e vagheggiato sogno di perseguire nel lavoro quotidiano idee che ritenevo importanti. Ma ora mi sto facendo suonare quasi troppo ragionevole. Perché è vero che c’è una certa ragionevolezza nell’idea che un progetto di dottorato richiede passione; è anche vero, però, che con un po’ di inventiva e intelligenza un progetto può essere adattato per includere un pochettino di qualsiasi idea, incluse le mie a cui ero così legata. Io però non vedevo compromessi, vedevo solo il bianco e il nero. Decisi di abbandonare il proposito, da me stessa annunciato e concordato, di partecipare a concorsi di altre università italiane, tradendo la fiducia accordatami dalla professoressa. Pensavo comunque di ritentare un round successivo del posto prestigioso iniziale previsto alcuni mesi dopo, come un’idea improvvisa avuta all’ultimo, un “perché no?”.

Non riuscii a centrare nemmeno questo semplicissimo obiettivo, per cui, in teoria, non avrei dovuto fare proprio niente se non proseguire sui miei passi. Ormai la sete di soddisfazione mentale si era impadronita di me e ne ero come posseduta. Odiavo il mio lavoro di analisi dati e odiavo la nuova tesi di laurea a cui stavo lavorando. Leggevo e digitavo svogliatamente, tutto procedeva a rilento, quel poco che realizzavo era di pessima qualità. Quando la mia relatrice se ne accorse e me lo fece notare, ebbi una crisi di nervi e le scoppiai a piangere in faccia (una delle scene più vergognose della mia vita), confessando infine questa tesi non mi piace e perciò non riesco a spremere manco una pagina decente. Lei, come sempre molto comprensiva, mi offrì di rimettermi in contatto con il professore che stava seguendo la mia tesi di prima, quella di quando avevo abbandonato l’università. Lui accettò di riprendermi, e in un paio di mesi scrissi un lavoro speculativo e abbastanza filosofico di un centinaio di cartelle. Aver scritto questa tesi e non l’altra mi squalificava in automatico dalla possibilità di concorrere per il secondo “round” del posto prestigioso. Poco male, restavano pochissime borse di studio ed ero fermamente convinta che non mi andava di “sacrificarmi” “ancora” per giocarmela.

La mia tesi di laurea avrebbe potuto, tuttavia, aprirmi qualche porta, quando riuscii a farla accettare a una conferenza a Londra. Peccato che non preparai abbastanza bene la presentazione e fu un fallimento a dir poco: intendevo leggere, ma mentre leggevo mi rendevo conto con un’evidenza ineluttabile di quanto il mio testo e i miei argomenti fossero privi di valore, inceppandomi così in continuazione, quasi per scusarmi, quasi per tentare invano e senza speranze di correggere quel che era troppo tardi o troppo presto per voler correggere. Con i miei tentennamenti e rimorsi fuori luogo sprecai il tempo dei legittimi, titolati studiosi presenti, che in seguito fecero calare un pietoso silenzio sull’accaduto. Non impressionai positivamente nessuno e non creai nessun contatto. Non si poteva non vedere d’altronde quanta superficialità cercasse con maldestria di celarsi dietro alle mie considerazioni, ne ero ben consapevole e me ne vergognavo. Avrei voluto così tanto avere la possibilità di dedicarmi a fondo a idee che ritenevo importanti, per molti mesi, magari per alcuni anni. Così sì che avrei potuto presentare il mio lavoro con sicurezza e orgoglio, e anche se ci fossero stati problemi nell’esposizione, il valore della ricerca avrebbe potuto trasparire e incuriosire. No, sicuramente non era un segnale che non ero tagliata per questo tipo di mestiere.

Ho abbandonato la Francia e mi sono trasferita, disoccupata e completamente priva di dignità, a casa dei miei genitori nel villaggio che odio e abbandonare il quale era la mia aspirazione principale a partire dai dieci anni e avrebbe dovuto restarlo, e ho fatto questo sacrificio per l’unico scopo per cui mi immolo nei miei sacrifici tra virgolette, cioè seguire le mie idee. Mi ero convinta che il modo migliore per farlo fosse vincere un dottorato negli Stati Uniti, per via della maggiore libertà e il tempo offerti agli studenti, e così avevo preparato e inviato una mezza dozzina di domande in cui, con termini goffi, altisonanti e generici, postulavo ancora un’altra opportunità. Attendendo e sapendo quanto improbabile sia un’accettazione, la mia attuale ricerca di un lavoro si scontra con l’inaffidabilità che il mio profilo sprizza da ogni snodo.

Nella mia vita personale mi sono macchiata di diversi misfatti, e una vittima di uno di questi, quando le chiedevo con insistenza di perdonarmi, mi disse tra gli altri insulti che ero una fallita lamentosa. E pensare che non aveva la più pallida idea di come la mia carriera di sarebbe svolta! Questo mi fa riflettere su come probabilmente molti semi dei miei fallimenti erano già ben piantati e annaffiati quando mi accingevo a mettermi alla prova con esiti così miserevoli. Forse, da quando ho smesso di comportarmi in modo poco civile con le persone, una ulteriore dose di inciviltà e mancanza di controllo si è riversata sul piano professionale. Forse invece, o anche, c’erano tante possibilità di imparare di più e meglio dall’esperienza e dalle persone intorno, possibilità che col mio passo imbranato e pesante ho calpestato e sepolto senza nemmeno scorgerle. Voglio scontarne ora la meritata pena.

Due personaggi

“Ti va di bere qualcosa insieme stasera?”. Quando lesse il messaggio whatsapp, G. fu invaso dal fastidio e pensò “Perché proprio a me?” Non solo quella pazza psicolabile di C., che si credeva si fosse ritirata dal gioco una volta per tutte, era tornata sulla scena più piagnucolosa e ficcanaso che mai, non solo si era trasferita proprio nella sua città e si era infilata proprio nel suo gruppetto di amici, ma aveva anche scelto proprio lui per quelle inopportune e ridicole avances per cui era così nota. Quel che sarebbe successo dopo era facile da prevedere, come in un diagramma di flusso. Una risposta troppo gentile sarebbe solo servita ad alimentare il malinteso e rendere ancora più traumatico il momento della verità, il silenzio rischiava di scatenare insistenze e intrusioni più spinte; il male minore era essere netti e stronzi, una scusa che era ovviamente una scusa, ma che era altrattanto ovviamente insindacabile e definitiva.
“No, stasera vado a correre”. G. si sentì molto fiero delle sue doti di problem-solving. Gli effetti collaterali della sua strategia erano minimi, il pericolo scampato grande, l’episodio sarebbe stato un bel tema per racconti e scherzi con amici e conoscenti dell’università dove lui faceva il ricercatore e C. era studentessa fuoricorso. Alcuni amici dal cuore tenero lo criticarono in nome della debolezza di C., “Sei stato troppo stronzo, G.”, “L’ho sentita, soffre molto”, e queste furono le uniche rare e innocue gocce del mare di dolore della studentessa che riuscirono ad arrivare fino a lui.
C. piangeva al lavoro, in metropolitana, a casa. Questa volta ci aveva davvero sperato, ci aveva creduto. Il sogno di frequentare il colto e brillante G. era diventato un’abbreviazione per il sogno di accedere lei stessa al circolo dei colti e dei brillanti. Se non era stata in grado scrivere progetti di ricerca abbastanza buoni, di guadagnarsi la stima dei docenti, poteva però comprare un vestito nuovo e farsi i capelli e colorarsi gli occhi per qualcuno che ci era riuscito, partecipare un po’ dell’intelligenza e del sapere attraverso l’adorazione servile di chi se li visti riconosciuti dalla comunità.
Al bar, o nel corso delle giornate fuori porta con il gruppo, G. snocciolava fatti, meccanismi, citazioni, li legava con maestria in discorsi lunghi e avvincenti, modulando toni e pause, da abile oratore quale era. Discettava di politica, religione, immigrazione, università, cibo etnico, conoscenti comuni. C. ascoltava estasiata, seguiva ogni frase, ogni nesso, all’erta per trovare domande da porgli o osservazioni da fare. Di queste ultime non ne aveva quasi mai, la consequenzialità e l’esaustività del parlare di G., unite ai sentimenti di lei, non lasciavano spiragli per lo spirito critico. Di domande invece ne avrebbe fatte migliaia, per sentirlo continuare ad approfondire e a spaziare, per allungare quei momenti di apprendimento innamorato fino al limite della loro possibile estensione.

Scrutavamo l’orizzonte

Scrutavamo l’orizzonte con attenzione propiziatoria. Ciascuno voleva essere il primo ad avvistare in lontananza la fascia di luce arancione che annunciava la fine della penosa attesa. Un tempo schiavo di un altro tempo. Arrivavamo trafelati alla fermata del pullman qualche minuto prima delle sette e iniziavamo ad aspettare, gli occhi fissi sulla strada provinciale. Ne interrogavamo l’asfalto rivolti verso nord, dove dalla zona industriale entrava in paese scendendo dalle montagne. “Quello è l’autobus?” Aguzzavamo la vista. Aveva appena fatto capolino dalla macchia di robinie che fiancheggiava la curva laggiù in fondo un mezzo rossiccio in cima, e quel rossiccio ancora omogeneo avrebbe potuto tra poco diradarsi e svelarsi come le lettere che componevano la destinazione e le fermate intermedie. Eppure non succedeva, il rosso si ostinava e restava un massiccio, insignificante rosso che si faceva anzi sempre più intenso. “No, è solo un camion”. Il sollievo strappatoci come illusorio si ripiegava in un’accresciuta stizza. Pestavamo i piedi. 

Poco importa se ci piacesse o no andare a scuola: ogni minuto in più sul ciglio fangoso di quella strada era un minuto in meno in città. La città. Smaniavamo per svolazzarci intorno e addosso come falene assetate di luce, eravamo lusingati di respirarne l’aria limpida per qualche ora al giorno – e proprio queste ore così preziose dovevano essere decurtate e il loro esordio guastato dal maledetto pullman che non arrivava mai. Dopo un po’, non potendo più reggere la tensione, ci scoraggiavamo e lasciavamo vagare la mente e gli occhi, campo visivo e visione disaccoppiati mentre guardavamo senza vederle la solita siepe di alloro, la solita serranda arrugginita, la solita aiuola brulla, cullati dallo sfrecciare delle auto. Capitava di riaversi con un sussulto ed essere colti dalla paura che il pullman fosse passato nel frattempo, che ci avesse colti tutti impreparati e, senza nessuno a fare il segnale di prenotazione della fermata, fosse passato oltre. Qualche volta succedeva. Allora, con un tuffo al cuore e un po’ oltraggiati, correvamo sbracciandoci fino alla fermata successiva, e di solito l’autista aspettava, ma solo se eravamo abbastanza numerosi. 

“Quello è l’autobus?”, e magari era già la terza volta che la domanda risonava. Seguivamo gli sviluppi del nuovo rossore con diffidenza. A un certo punto, però, le lettere arancioni si stagliavano inequivocabili sullo sfondo nero, “è l’autobus!”. Con giubilo raccoglievamo gli zaini da terra e ci ammassavamo dove normalmente veniva a trovarsi la porta davanti. Quell’ultimo minuto di attesa era quasi piacevole: finalmente l’indeterminatezza era troncata, l’oggetto del nostro aspettare, che, finché la distanza e le robinie lo celavano ai nostri occhi, avrebbe potuto non essere mai partito, essere rimasto bloccato chissà dove, essere destinato, insomma, a non arrivare, era adesso reale, presente, un parallelepipedo in moto  rettilineo verso di noi – la certezza ci scaldava il cuore.

La città sotterranea / 2, inizio

Sento nominare le catacombe non ufficiali per la prima volta a una festa a casa di un giovane imprenditore conosciuto da poco, un’estate. 

Studentessa fuoricorso di comunicazione in Erasmus a Parigi, ero intenta a dilapidare i tempi supplementari della mia giovinezza e i generosi o supplici finanziamenti dei miei genitori corteggiando questo o quel bel giovane di successo e bevendo per dimenticare i rispettivi rifiuti. Con sciatteria trascinavo il peso morto del futuro, la tesi, la ricerca di lavoro, i concorsi, cartellini da timbrare al risveglio a mezzogiorno e scordare all’ora dell’aperitivo. Nemmeno Parigi esisteva davvero per me se non come seccante distanza da percorrere, minuti preziosi sottratti al mio sonno onnivoro, o geolocalizzazioni di speranze, ritardi, batoste e pianti.

Una rete di centinaia di chilometri di tunnel e cunicoli abbandonati sotto la rive gauche, niente luce e niente connessione, accedervi è vietato ma alcuni appassionati conoscono gli ingressi nascosti. Il mio nuovo amico, Jean, è venuto a conoscenza di un ingresso e ha ottenuto una mappa; ha anche già esplorato qualche breve tratto. Inizio a condividere con lui l’entusiasmo per questo luogo misterioso e pericoloso, e per l’opportunità rara di poterlo visitare. 

Organizziamo una prima escursione. La paura e le riserve e la decisione risoluta di superarle in nome dell’avventura sono un nuovo linguaggio, un nuovo programma nel mio sistema, che mi fa riattivare dopo tanto tempo gli arrugginiti accenti della lingua degli scopi e dei progetti. Mi informo su internet, leggo pagine in francese sulla storia e la geografia delle catacombe e blog di esploratori che le hanno visitate. Mi reco in un pomeriggio di pioggia fino al Decathlon di Cluny la Sorbonne per comprare materiali che giudico necessari come una torcia elettrica, molte batterie, un paio di stivali da pioggia, una bussola, uno zainetto da montagna.

Siamo un gruppetto di cinque persone, Jean, un suo parente, un altro ragazzo incontrato alla festa e due mie amiche, Eleonore e Sonia. Veniamo da paesi diversi, Francia, Germania, Italia e Moldavia, e francese, italiano e inglese sono le lingue che risuonano nelle nostre gaie e sgrammaticate conversazioni.

Il nostro primo tentativo di discesa termina in un fallimento.

Già spostarci dalla casa di Jean dove ci eravamo incontrati per prepararci fino all’area del quattordicesimo arrondissement in cui è situato l’ingresso che lui conosce presenta difficoltà impreviste: la linea del tram è interrotta per lavori in corso e questo ci costringe a una lunga deviazione. Arrivati, iniziamo eccitati e pieni di aspettativa a costeggiare nell’umido del piovischio un muro oltre al quale, Jean garantisce, c’è la magica imboccatura della città sotterranea. Il muro, tuttavia, non accenna ad abbassarsi o a interrompersi: è invalicabile. Così almeno appare a me, che soffro di vertigini e non faccio alcuna attività fisica da molti anni. Jean vede le cose diversamente e individua un punto in cui secondo lui si può scavalcarlo senza difficoltà, essendo la porzione più in alto sostituita da una una ringhiera. Cerco di oppormi con una nota di disperazione, dev’esserci un altro modo, mi avevano promesso niente scalata, niente altezze, non posso farcela, vado in panico; ma in fondo so che non posso tirarmi indietro, tanto più che tutti, anche le mie due amiche, compiono l’operazione senza storie, con l’aiuto dei ragazzi. Mi inerpico sulla ringhiera tremando come una foglia, sudando freddo alla sensazione di mani e piedi dentro a stivali troppo grandi – ho prestato i miei a Eleonore per evitare che si ritirasse – che scivolano sul ferro e il cemento bagnati, in equilibrio precario in cima e poi, dall’altro lato, a stento trattenendo grida di terrore alla vista dell’abisso di più di dieci metri da cui mi trattiene solo uno strettissimo cornicione. Da qui con un piccolo salto bisogna raggiungere una scala, su cui si ridiscende fino alla base del muro. Gli altri mi rassicurano e mi tengono la mano, questo salto così rischioso mi sembra oltre le mie possibilità ma non ho scelta e dobbiamo sbrigarci prima che qualcuno ci veda dalla strada. Atterro sulla scala, quasi presa di peso da Jean, con le gambe che tremano così tanto che fatico a reggermi in piedi. Ancora scossa e molto umiliata, scendo i gradini in silenzio, un po’ estraniata dall’eccitazione del resto della comitiva e infastidita dalle loro parole di consolazione. 

Arrivati a terra iniziamo a camminare in direzione dell’ingresso, sul terreno dimesso ed erboso di vie abbandonate e parchi chiusi. Camminiamo abbastanza a lungo, già affascinati dai rampicanti e i graffiti che incorniciano la prospettiva. Scopriamo anche un cancello da cui avremmo potuto passare di qua del muro senza rischiare di romperci l’osso del collo, che per me rappresenta un gran sollievo e la promessa di un ritorno sotto migliori auspici.

Raggiungiamo infine la discreta ma inconfondibile apertura tra muro e terra, come di una tana, l’ingresso delle catacombe. La circondano fango, graffiti e rifiuti, ed è frequente incontrarvi altri gruppi di esploratori. Dobbiamo chinarci, piegarci e raggomitolarci per calarci attraverso, scivolando quasi giù nell’imboccatura di roccia sporca fino a uno stretto cunicolo pochi metri più in basso. 

Uno dopo l’altro, ci allineiamo all’inizio di una galleria più alta poco più in là, i piedi nell’acqua torbida e fresca, respirando l’atmosfera, ambientandoci, valutando le nostre sensazioni e reazioni. Facciamo pochi metri prima che Sonia inizi ad addurre l’acqua a problema insormontabile. Più in generale, ha paura, si sente claustrofobica, non è sicura di poter reggere un’escursione laggiù. Consideriamo l’opzione di separarci ma è tardi e non ce la sentiamo di lasciarla tornare da sola, o insieme a uno dei due ragazzi che non conosciamo bene e che non ispirano particolare fiducia. Ottengo che almeno ci aspettino fuori per mezz’ora mentre con Jean ed Eleonore camminiamo un po’ oltre nella galleria. Mezz’ora vola, attraversando a passi lenti e stentati per paura di inciampare quello spazio così pregno di straordinarietà, cercando di assorbirne più sensazioni possibili, ma con un’infinita tristezza per la nullità dei pochi metri che ci è dato percorrere in quella galleria spoglia di fronte alla chilometrica ricchezza custodita nel buio che si stende di fronte a noi.

Veniamo superati da una comitiva guidata da un uomo barbuto e magro che parla con autorità. Sento che il nostro tempo sta per scadere e ne sono desolata, cerco perciò di aggrapparmi a un contatto con quell’uomo per aumentare la probabilità di un ritorno. Gli chiedo, nel mio francese ridicolo, “Lei è una guida?”. Alla sua risposta affermativa, azzardo una frase e una richiesta più complicata, e con parole mal scelte e goffa insicurezza gli domando se posso partecipare a una delle prossime escursioni da lui condotte. Lui, con fretta e quella che interpreto come una buona dose di disprezzo, mi risponde che la prossima escursione sarà il primo settembre e mi lascia uno pseudonimo e il suo numero di cellulare, prima di sparire inghiottito dalla prossima curva mentre noi, riluttanti, facciamo marcia indietro.

Facciamo marcia indietro verso l’uscita, verso una serata passata a scolare lattine di birra come tutte le altre serate. L’eccitazione per la quasi avventura però illumina un poco anche questo indegno finale, mentre chiacchieriamo seduti per terra in un parco abbandonato. Due giovanissimi ed eccentrici turisti olandesi si intromettono nel nostro circolo movimentando la piattezza dei nostri scambi con le loro pazzie, raccontano che per risparmiare dormono nelle catacombe e bevono acqua piovana, e chiedono informazioni che io, reduce da pomeriggi di studio sui tunnel e le loro attrazioni, sono felice di fornirgli, con una certa invidia per la loro scapestrata libertà e audacia che probabilmente gli permetterà di vedere quei luoghi nascosti e carichi di mistero che io devo accontentarmi di conoscere in immagini e parole.

Il primo settembre è lontano e l’impressione che ho ricavato dall’interazione con la guida non è stata positiva, perciò insisto con Jean ed Eleonore per impegnarci a tornare già la settimana prossima, con l’imperativo di arrivare almeno alla più facilmente raggiungibile tra le sale celebri delle catacombe, la Plage.

Abitavo in una banlieu a sud di Parigi, al decimo piano di un imponente condominio popolare. Ero arrivata pochi mesi prima alla Gare du Nord sull’Eurostar dall’Inghilterra, schiacciata, sfinita da tre valigie e due zaini colmi di ciarpame inutile e libri casuali. In Inghilterra avevo un lavoro fisso come informatico, ma avevo deciso di mandare tutto in malora per tornare all’università e alla ricerca, al tempo stesso sogno di un’infanzia studiosa che non potevo rassegnarmi a dichiare fallito e terra del bengodi del sonno diurno e della sregolatezza, rimpianta ogni mattina al momento di andare in ufficio. 

A Parigi avrei dovuto scrivere la tesi di laurea e aiutare ad analizzare i dati in un laboratorio di ricerca sulla comunicazione politica, ma dopo qualche settimana il palesarsi del divario tra le mie competenze e motivazione e quelle che sarebbero state necessarie a fare qualcosa con quei dati condusse a un tacito compromesso per cui avrei scaldato una sedia e il mio pc per circa sei ore al giorno, preso parte a qualche meeting, salvato insomma la finzione di formarmi come da mission dei tirocini Erasmus, e per il resto sarei stata libera di dedicarmi ai miei progetti, cioè a sbattere la testa confusa contro un muro di idee contraddittorie, vaghe e cangianti circa cosa farne della mia vita. L’unica conclusione a cui arrivai presto e oltre la quale mi mossi ben poco fu “Qualsiasi cosa, ma non analizzare dati”.

Dalla sedia che scaldavo, bastava girarsi per godere di una vista mozzafiato sui tetti, i terrazzi e i comignoli del settimo arrondissement. La ricordo in particolare attraverso una foto carica d’odio che caricai su Instagram: il cielo primaverile di un azzurro vivo e delicato al tempo stesso, qua e là sporcato da spruzzi di nuvola o graffiato da strisce di aeroplani, placido, né bello né brutto; e né bella né brutta al punto da farmi innervosire trovavo anche l’armoniosa varietà bluastra di attici, rampicanti, finestre e tetti sobri ed eleganti che si perdeva a vista d’occhio e solo in lontananza lasciava spuntare, come da un’altra dimensione, minuscole, le guglie di una chiesa, il profilo di un grattacielo. Un mondo di opulenza trattenuta, di solenne sicurezza, rispetto a cui la mia gridata povertà era al tempo stesso oltraggiosamente vicina e a una distanza straziante.

Day in, day out, e in sempre più in ritardo e meno di frequente, ma a nessuno pareva importare granché. Iniziai a scrivere una tesi di laurea ma mi arenai e cambiai tema. Conobbi un gruppetto di universitari cattolici che organizzavano escursioni in Ile-de-France nei weekend: quei viaggi fuoriporta in compagnia di quei giovani colti ed estroversi erano un’isola di sospensione e letizia, momenti di evasione fisica e mentale dalle celle successive che scandivano i miei giorni feriali. L’appartamento stretto e sovraffollato, l’ascensore scricchiolante, i vagoni sporchi e stracolmi della metropolitana all’ora di punta, l’ufficio, i tristi ipermercati di periferia, allontanandosi dietro al treno la domenica mattina lasciavano la presa sul mio umore e la mia immaginazione si apriva euforica e leggera ai colori della campagna, alla storia di chiese e castelli, ai problemi pratici del percorso. Più di tutto, però, mi piaceva seguire le conversazioni dei compagni di viaggio, che erano articolate, interessanti e informate come non ne sentivo da anni, e spaziavano dalla politica alla religione alla storia alla vita parigina al gossip senza mai scadere nella banalità frammentaria che incapsulava qualsiasi argomento nel conversare mio e dei ragazzi che incontravo alle feste e nei pub. Non durò a lungo, tuttavia, perché mi innamorai del leader della comitiva e da incauta gli chiesi un appuntamento: quando lui rifiutò il dolore e l’imbarazzo furono tali che abbandonai il gruppo. Il mio unico ma ipertrofico svago tornavano a essere le serate nei bar, dove quasi ogni giorno mi concedevo qualche ora di costosa felicità fermentata.

Assicurarmi che l’alcol non manchi è una delle mie preoccupazioni principali anche in vista della nostra spedizione nelle catacombe. Non conosco sostanza più capace di riempirmi di energie positive nelle avversità, ed è pensando a come affrontare possibili problemi laggiù che compro birra e whisky e li imballo con cura in fondo allo zaino. Jean è più ottimista e i litri di birra e vino di cui si carica sono concepiti per festeggiare e rilassarci una volta arrivati alla Plage.

La città sotterranea

Sento nominare le catacombe non ufficiali per la prima volta a una festa a casa di un amico [nel dodicesimo. Ero lì per cercare di levarmi dalla testa la mia ultima ossessione romantica, un ingegnere militare che compiaciutone assecondava la mia adorazione nonostante fosse fidanzato. Quando il mio amico mi spiega cosa sono le catacombe non ufficiali, sento subito una grande fascinazione.] Una rete di centinaia di chilometri di tunnel e cunicoli abbandonati sotto la rive gauche, niente luce e niente connessione, accedervi è vietato ma alcuni appassionati conoscono gli ingressi nascosti. Il mio amico è venuto a conoscenza di un ingresso e ha ottenuto una mappa; ha anche già esplorato qualche breve tratto.

Inizio a condividere con lui l’entusiasmo per questo luogo misterioso e pericoloso, e per l’opportunità rara di poterlo visitare. Ci mettiamo presto al lavoro per organizzare un’escursione. Cerco di includere anche l’ingegnere, che però appena scopre i rischi e le sanzioni si ritira. Spesso nella mia vita il conformismo e la prudenza tipici degli uomini sempre convinti di valere molto e avere molto da perdere dei quali tendo ad essere attratta hanno funto per me da ideale; un ideale tuttavia distorto e inibente, perché così poco in linea con il resto della mia personalità. Non questa volta, in cui complice l’individualismo suscitato dalla grande metropoli reagisco con un senso liberante di disprezzo per la sua meschinità che è una ribellione, un rifiuto del mio usuale assoggettamento ai canoni del suo mondo luminoso e arrogante di successo, bella forma e razionalità, l’accettazione orgogliosa di un’incompatibilità troppo a lungo vissuta come fallimento e sconfitta.

Il nostro primo tentativo di discesa è un flop. Abbiamo difficoltà a trovare l’ingresso ed essendoci sfuggita la strada corretta ne imbocchiamo una molto più pericolosa, che richiede di inerpicarsi su un cornicione sospeso su un baratro di una decina di metri, sotto la pioggia.  Dopo pochi metri nelle gallerie con l’acqua alle caviglie, una ragazza della comitiva inizia a sentirsi molto spaventata e claustrofobica. Per non doverci separare, decidiamo di abbandonare l’impresa e tornare la settimana dopo senza di lei.

La settimana dopo, invece, tutto va come previsto, ed entriamo nella rete tutti ben equipaggiati, pronti e motivati. Abbiamo torce elettriche e pile, power banks, abiti adatti a bagnarsi, mappe e una bussola. Percorriamo un lungo tunnel rettilineo nei pressi del Boulevard Jourdan. Il tunnel è alto circa un paio di metri e largo circa un metro e mezzo, e si può marciare speditamente. L’unico ostacolo sono gli occasionali punti allagati: acqua limpida e inodore che sgorga dal sottosuolo, trasparente alla luce delle torce prima di essere resa torbida dalle polveri che solleviamo al nostro passaggio. Piccole stalattiti e altre formazioni calcaree ornano le pareti a tratti deturpate da graffiti frettolosi. Ci imbattiamo in oggetti inattesi come un vecchio generatore, una bicicletta e persino il relitto di un monopattino elettrico. Il mio amico indica piccole mensole e capitelli aperti qua e là nei muri e spiega che vi si possono trovare foglietti che informano su date e luoghi di feste sotterranee. Ne troviamo infatti uno, relativo a una festa passata. I tunnel laterali più bassi che si diramano da quello che stiamo percorrendo sono magnetiche, misteriose imboccature di complessi universi ripiegati.

Una specie di marchio di fabbrica delle gallerie è inciso e stampato a intervalli regolari: sigle alfanumeriche in cui il numero della costruzione è seguito dalle iniziali dell’inspecteur des carrières che ne ha diretto la realizzazione, e dall’anno di questa. L’Inspection générale des carrières è l’organo creato nel 1777 per mappare e consolidare la rete di tunnel in seguito a crolli che mettevano in pericolo gli abitanti al di sopra della rete. Nell’immagine, la B. indica Édouard Blavier, che fu ispettore tra il 1856 e il 1858. Gli anni che ho avuto occasione di vedere nelle mie esplorazioni vanno dagli anni Ottanta del Settecento alla fine dell’Ottocento. [altri esempi]

Un altro segno caratteristico sono le targhe o le iscrizioni con i nomi delle vie corrispondenti nella Parigi di sopra. A volte seguono anche lo stesso schema grafico, scritta bianca in campo blu, altre volte sono semplicemente bassorilievi colorati di nero. La mappa ne riporta la maggior parte, e sono estremamente utili per orientarsi; porto comunque sempre una bussola. I nomi di certe vie fanno un effetto particolare visti quaggiù, le vie che conosco, le vie dove hanno abitato o abitano amici, nemici, amori, le vie associate a momenti belli, brutti o tutt’e due insieme, le vie famose, le vie di cui ho letto online. I ricordi e le associazioni affiorano trasfigurati, connessioni al tempo stesso intime e distanti come la prossimità a quei luoghi, vicinanza fuori dagli schemi prevedibili della vicinanza, vicinanza a tradimento, alle spalle, insospettata, carsica. La sofferenza e la gioia passate sono gemme di senso colorate e preziose riportate alla luce in queste antiche gallerie nelle viscere della capitale. E non manca un senso di rivalsa, per averle ritrovate dove nessuno dei loro co-protagonisti ha mai saputo, osato, finanche immaginato di recarsi, per aver raccolto ricordi in, di e da un mondo che per loro nemmeno esiste.

L’unica luce è quella delle nostre torce elettriche, gli unici suoni le nostre voci e la loro eco, ogni tanto qualche altra comitiva di esploratori, a volte con radio e musica per creare atmosfera. Ogni tanto ci fermiamo impressionati a rumori e tremori probabilmente ascrivibili al passaggio non distante della metropolitana. Mi aspettavo, nel buio e nell’isolamento completo rispetto all’esterno — i nostri telefoni sono infatti irraggiungibili — , di esperire sentimenti dal tono meditativo, mi aspettavo una sorta di misticismo e purificante ritorno in sé, che tuttavia non ho mai provato. Con la comitiva di parla, si scherza, si canta anche: prevale sempre un atteggiamento avventuroso, intraprendente e cameratistico. Portiamo con noi qualcosa da bere e da mangiare, e nelle pause ci fermiamo e riguadagnamo le energie per lo più con qualche birra. Il tempo passa molto velocemente quando si cammina nelle catacombe: il mio amico sostiene che sia un effetto dell’assenza di luce naturale, sfruttato anche nei supermercati, in genere infatti privi di finestre sull’esterno, per far sì che vi si resti più a lungo. Non mi è mai successo di sentirmi stanca di restare nelle catacombe e di sentire un desiderio impellente di uscire; anzi, ogni volta, al momento di risalire, dopo  escursioni dalla durata tra le 5 e le 8 ore, avrei voluto prolungare l’esperienza.

Arrivati all’altezza di Porte d’Orleans, ci dirigiamo verso nord seguendo più o meno l’Avenue du Général Leclerc. Il mio amico ci guida attraverso la stretta galerie des cables, a una specie di “fonte battesimale”, sotto a rue d’Alésia, verso Place Victor et Hélène Basch. Il luogo è descritto “ufficialmente” come “puits à eau avec margelle”. Si tratta infatti di un pozzo, profondo circa 4 metri, pieno fino all’orlo di acqua limpida, situato in un’apertura laterale della galleria e separato dal tracciato principale da un basso muretto. Il mio amico suggerisce che ci “battezziamo” tuffandoci nel pozzo, e dà per primo l’esempio. Accende dei lumini e li posiziona nei pressi del pozzo per creare un’atmosfera arcaica e ieratica. “Che cazzata”, penso. Ma..

Tutti i ragazzi della comitiva lo seguono, e per ultima mi cimento anche io. Mi tuffo e cado di peso fino a toccare il fondo, e ci vuole qualche secondo prima di riemergere. Una volta a galla sono disorientata e vado a sbattere la testa contro una parete a lato del pozzo. L’acqua è molto fredda, ma ci asciughiamo in fretta e la sensazione diventa presto una di benessere. La temperatura nelle catacombe si assesta infatti intorno ai 18 gradi ed è costante tutto l’anno, motivo per cui, tra l’altro, diverse sale hanno anche ricoperto la funzione di cantine per la conservazione di birra, vino, liquori e altri prodotti.

Proseguiamo. Il nostro obiettivo è raggiungere la sala chiamata “La plage”, che era appunto un’antica birreria. La plage è uno dei luoghi più famosi delle catacombe, e inoltre uno dei più facilmente accessibili. Non la troviamo subito, e ci ritroviamo a vagare per un po’ persi tra i meandri della vicina Salle Marie Rose, un complesso di stanze sotto l’omonima via, ma incontriamo presto altri esploratori ci spiegano l’errore. Finalmente raggiungiamo la plage. Ci accoglie una grezza statua a forma di muscoloso bipede con un muso da rana in posa di reggere il soffitto. è coperta di graffiti come quasi tutte le pareti e i pilastri. La plage è abbastanza vasta e labirintica, ma dopo non molto appare davanti a noi quello che è probabilmente lo scorcio più celebre delle catacombe non ufficiali, il grande graffiti che, su una parete della plage, riproduce “La Grande Vague de Kanagawa” di Hokusai. Intorno, addossato alle tre pareti che racchiudono lo spazio, un piccolo rialzo funge da panca dove i visitatori si siedono per bere una birra, fumare, consultare le mappe, dare e ascoltare spiegazioni, conversare, fare conoscenza con altri gruppi, ascoltare musica. Questo è uno dei principali luoghi di ritrovo per i cataphiles, i frequentatori abituali delle catacombe, ma anche per i visitatori occasionali. [scene]

Anche il resto della plage è un luogo affascinante: il soffitto è più alto che nelle gallerie, e pilastri di varie misure e porzioni di muro lo sostengono e spartiscono in vari spazi comunicanti. Immagini della cultura pop si affiancano a simboli misteriosi per iniziati e scritte. 

Il pavimento simile a terra battuta o a melma solidificata, è un inizio, o un resto, di riempimento: come ci spiega una cataphile, negli anni Ottanta si era deciso di eliminare questo spazio si era proceduto a versare sabbia di riempimento che ne ha coperto e innalzato l’originario pavimento, dalla quale riceve il suo attuale nome. La ragazza ci fa notare un letto sepolto, di cui emerge solo la parte superiore della spalliera. In certi punti, la melma è ancora molle e viscosa, e crea delle vere e proprie piccole sabbie mobili o degli strati appiccicosi su cui è difficile camminare senza che le scarpe rimangano appiccicate. In altri punti uno strato sottile di sabbie analoghe dà luogo a superfici scivolosissime dove bisogna camminare con estrema cautela. Ma non è come il fango che si trova all’aria aperta, ha l’aria pulita e interessante di un materiale sintetico che invita a giocare e sperimentare. 

Dalla plage si dipartono le strade che dalla zona nei dintorni di rue Sarrette portano da un lato verso sud, all’area nei pressi del parco di Montsouris, da cui siamo venuti, e dall’altro verso nord, al resto della rete e con le sue innumerevoli ulteriori “attrazioni”. Per la nostra prima visita decidiamo di fermarci qui e di fare ritorno all’uscita. [scena]

Dopo circa un mese, tuttavia, organizziamo una seconda escursione con un obiettivo un po’ più ambizioso. Arriviamo alla plage speditamente attraverso quella che diventa la nostra strada standard, passando sotto alla rue du Père-Corentin, che nel sottosuolo porta ancora in parte il nome originario di Rue de la Voie Verte, e attraverso la Chatière de Sable. Si chiamano chatière i passaggi stretti dove è necessario chinarsi, a volta accovacciarsi e persino strisciare. La chatière de sable è abbastanza larga, ma il tratto per cui bisogna muoversi chinati non è brevissimo. Il nome di chatière de sable è particolarmente calzante, vista la colorazione ocra e la consistenza sabbiosa dei materiali di riempimento che ne ricoprono la camminata e le cui colate fanno capolino da aperture laterali tappate e degradano sui lati come dune. A metà si apre una sorta di spiazzo basso e largo dove ci fermiamo per riposare. Qui c’è anche uno dei molti pozzi che collegano le catacombe alla superficie. Siamo tra i 20 e i 30 metri di profondità, e il pozzo si presenta come un buco nero nel soffitto di cui non si vede il fondo. Questo non ha scale, alcuni sono dotati di pioli di ferro arrugginito fissati alle due estremità nella pietra. La maggior parte, tuttavia, sono sigillati in maniera definitiva, saldati o ricoperti dall’asfalto o dal cemento. 

Alla plage la nostra comitiva si disgrega, ma abbiamo tutti in mente la stessa destinazione: il carrefour des morts. Sappiamo che in questo sito si possono osservare e, volendo, toccare mucchi di antiche ossa, in una versione disordinata e dimessa dei celebri ossari nelle catacombe ufficiali. [io prendo per la prima volta la guida]

Appena usciti dalla plage e incamminatici verso nord, propongo ai miei due compagni di viaggio di fare una deviazione per visitare la grande Chambre Egyptienne, o Cellier. Vi accediamo dal lato est attraverso una stretta Chatière, che si presenta come un’apertura nella parte superiore del muro sinistro della galleria che stiamo percorrendo in direzione nord. Questo complesso di stanze, sempre nella zona Sarrette, è molto esteso e intricato, e ricchissimo di ambienti diversi e disegni e altre forme di decorazione originali, inquietanti e sorprendenti. Usato come birreria e cantina dalla fine dell’Ottocento e collegato al resto della rete negli anni Ottanta, l’intensa e fantasiosa attività profusa dai cataphiles nel decorarlo salta subito all’occhio. Esplorandolo troviamo un riscontro del nome in un gruppo di grandi graffiti che rappresentano personaggi e situazioni ispirati all’Egitto dei faraoni. Tentativi di visita ordinata seguendo le pareti sono vanificati dalla loro natura articolata, frastagliata e molteplice. Ci imbattiamo nell’inquietante e affascinante “Salle des Reflets”, i cui muri sono tempestati di frammenti di specchio e candelabri reggono pezzi di bambole. Scopriamo altri aspetti e dettagli curiosi di questo complesso ritornandoci in una delle escursioni seguenti, come un modellino del pulcino Calimero appeso al soffitto presso la chatière a est, una piccola scala di pietra in cima alla quale in un angolo raccolto sono depositati dei libri, scale a chiocciola che si interrompono nel vuoto, una strettissima chatière che porta in una sala dalle altissime volte che sembra una cappella, assi metallici trasversali che accennano alla cantina di un tempo. 

Ci lasciamo alle spalle le vivaci e variopinte sale del Quartier Sarrette e Proseguiamo verso nord seguendo rue Sarrette e poi rue de la Tombe d’Issoire, fino a un grande crocevia in cui incrociamo un asse ovest-est formato da gallerie spaziose, su cui veglia un’enorme testa grigio-marrone con un naso prominente, pupille bianche e una corona di graffiti, modellata dall’imponente massa di un sostegno. [Qui incontriamo un cataphile che ci spiega… Passa un gruppo di cataphiles con una lampada a olio…]

Imbocchiamo la via verso ovest, che ci conduce tra gli archi di un antico corso dell’Aqueduc d’Arcueil. Passiamo accanto alla sezione della rete separata e dedicata alle visite turistiche degli ossari ufficiali, uno spazio dal significato così diverso eppure uniforme a quello dove siamo e tagliato fuori solo dai tratti di inchiostro che stanno per muri e colate di cemento. Lo costeggiamo da ovest, sotto a rue Sophie Germain e ad Avenue d’Orleans, prima di allontanarci lungo rue Daguerre, costeggiando le gallerie e sale che furono usate come rifugio e quartier generale della resistenza parigina nella Parigi occupata nell’agosto 1944, oggi parte del Musée de la Libération. Pare che si possa arrivare fino a una porta sigillata all’altro lato della quale si sviluppa l’itinerario nell’ossario ufficiale. Penso che mi sarebbe piaciuto arrivarci, per vederla in seguito dall’altro lato durante una visita convenzionale. 

Seguiamo rue Boulard verso nord e camminiamo, senza rendercene conto, sotto al Cimitero di Montparnasse. In questa zona i tunnel si sviluppano su due livelli: quello su cui siamo arrivati, e un livello inferiore. Sul livello superiore poche gallerie ortogonali si intersecano e convergono nella rotonda detta Carrefour des Morts, similmente a come un sentiero ad anello segna il centro del celebre cimitero in superficie. Quest’ultimo ha il suo gemello speculare sotterraneo poco a est del Carrefour des Morts, un’altra rotonda sulla cui parete è stato recentemente realizzato un graffiti rappresentante l’ex-presidente Chirac, in seguito alla sua morte e sepoltura pochi metri più in alto. Al centro del Carrefour des mort un’apertura in alto nel muro cilindrico che chiude lo spazio centrale conduce a un piccolo ossario nel corridoio circolare. Per lo più ossa lunghe e frammenti sono sparsi per terra insieme a mattoni e lastre, in mucchietti più alti ai lati dove forse un tempo erano stati accatastati, e in pochi bassi, irregolari resti di formazioni trasversali. Una sottile vernice di melma dà alla loro superficie gli stessi colore e consistenza che ha quella della pietra tutt’intorno. L’effetto non è di sporcizia, ma pare che il sobrio e neutro velo di materiali inorganici cospiri con l’oscurità per preservare l’armonia cromatica e con essa la pace del sito. Un teschio solitario trovato non molto distante viene riportato e deposto nel corridoio al centro del Carrefour per deliberazione comune. Le ossa gettate e ammassate qui venivano dalle fosse comuni, quelle di fianco al cimitero di Montparnasse quando fu ristrutturato verso metà ottocento, quelle per cui non c’era più spazio nell’ossario municipale ufficiale, quelle delle numerose vittime delle epidemie di colera dell’inizio del diciannovesimo secolo. Venti metri e qualche decina di caratteri in meno, la loro distanza dalle celebrità e i facoltosi del piano di sopra, la loro distanza dalla storia.

è per accaparrare alla mia vita un frammento di ufficialità che poco dopo volo in Italia. Provo a laurearmi finalmente, con molto ritardo, discutendo una tesi penosa messa insieme in poche settimane di canicule, sbronze e romanticismi vani. Parla di filosofia sociale e social media: ho saccheggiato i concetti che più mi “ispiravano” da un po’ di letture disordinate e casuali, li ho ammucchiati insieme e ricoperti con una patina posticcia di coerenza teorica e ricostruzione storica accennate, superficiali, apparenti. Ma, si sa, un organismo massiccio, pesante e formale come una grande università non va tanto per il sottile, non ha certo tempo di stanare ogni piccolo impostore, soprattutto se la laurea in questione non apre nessuna porta verso nessun “lavoro serio”. Minuscola di fronte al potere immenso della commissione e del suo presidente di graziarmi e donarmi un’altra possibilità o suggellare il fallimento definitivo di dieci anni di confusione, incostanza, pressapochismo in cui ansimavano soffocando belle ambizioni e amore per lo studio, per entrare infine in coma sotto ai colpi di ossessioni non domate e le loro conseguenze, l’unica forma in cui sono condannata a esperire l’amore, del sacrificio di tutto per una causa persa, della perdita della salute fisica e mentale, della terapia psichiatrica. Ritualmente avevo preparato con cura una presentazione, tutte le mie forze erano concentrate verso l’interpretazione del ruolo della brava studentessa che si è impegnata, che ha sudato, che merita, che quel che potrete sentire e vedere è solo la punta dell’iceberg di un lavoro molto più grande e profondo; sapendo che l’esibizione oltre ogni dubbio di dedizione e investimento spesso fa scambiare la superficialità per ingenuità o magari persino per complessità. L’incantesimo funziona forse, forse è solo un “tanto vale, per quel che vale”, e mi conferiscono la laurea. Un brivido di gioia mi attraversa per quell’immeritato, disprezzato, non scontato diploma fuoricorso; per un attimo riesco a dimenticare le sue macchie, le mie macchie che lui non cancella, il confronto impietoso con i tempi standard delle istituzioni e quelli dei miei compagni di corso e dei miei amici. La prospettiva della missione compiuta, la concentrazione di tutte le energie e l’attenzione su quell’unico obiettivo delle ultime settimane mi ripaga con la sua peculiare felicità. Ho messo una pezza sul mio profilo in sfacelo, non c’è molto da festeggiare, solo il senso di aver evitato, per un soffio, il peggio. Se non fossi riuscita a laurearmi a questo appello, avrei dovuto rinunciare. I miei genitori sono al settimo cielo, non ci speravano più. Per loro la laurea è comunque una gran cosa: anche loro come l’università, sebbene dall’altra parte dello spettro della legittimità, del potere e della sofisticatezza, non si curano delle sottigliezze, del dietro le quinte, del vuoto che la retorica cela. Il loro ignorante orgoglio e quello, cortese e affezionato, di alcuni amici a cui alla fine mi sono rassegnata a confidare della laurea, sono contagiosi e mi fanno sentire per un po’ esultante e fiera.

Non so ancora, però, se e come saprò sfruttare questa ennesima seconda chance. Sogno di fare un dottorato, ma non ho idee di ricerca né la stima e fiducia di alcun accademico. Ho perso un lavoro dopo l’altro per mancanza di motivazione, pigrizia, inettitudine, alcolismo. L’avversione viscerale che ho sviluppato per l’informatica mi ha inimicato gli unici che sarebbero stati disposti a pagarmi. La notte prima della discussione non ho dormito, pensieri d’amore intrufolatisi nella mia mente hanno disinnescato il sonno ma ho saputo prontamente sfruttare quelle ore per perfezionare la mia esposizione dell’indomani e al mattino mi sono dopata con una Red Bull. Dopo, ignoro i richiami del sonno e del buon senso per godermi il mio piccolo trionfo bevendo prima alla festa di laurea di un compagno più giovane, poi al pranzo in mio onore con famiglia e amici, con il risultato che mi presento ubriaca a un ricevimento accordatomi da una giovane professoressa in carriera da cui speravo di trarre aiuto e supporto per i miei fumosi piani di ricerca. La ratio era che un po’ di alcol mi avrebbe resa più sciolta, sicura e in grado quindi di fare con dignità quel che da sobria mi riesce così pauroso, difficile e goffo, comunicare a tu per tu con qualcuno molto superiore a me per status. Questa tattica il più delle volte funziona, ma sottovaluto la differenza tra l’alcol dosato con precisione nella solitudine della mia stanza fino a ottenere esattamente l’effetto desiderato, e i molti bicchieri bevuti senza nemmeno contare intorno a tavoli festanti. Insomma, esagero e insieme al troppo vino faccio sparire senza rimedio anche quella che forse sarebbe stata un’ottima opportunità di avvicinarmi all’obiettivo che più ho a cuore. Ma sono troppo stanca e rintronata persino per i sensi di colpa, che in riferimento a questo episodio cominceranno a emergere con molte settimane di ritardo. Con il cervello impastato dal sonno continuo a prendere appuntamenti con amici e conoscenti, bere, raccontare spezzoni inconsistenti mio impasse esistenziale, girare come una trottola per le arcinote vie medievali della cittadina facendo acquisti e incontri casuali fino a tarda notte. Già il giorno dopo mi sembra di essere lì da troppo tempo, dentro a un passato concluso che mi espelle, dove non ho più il diritto di restare, che anzi il solo fatto di esservi rimasta legata così a lungo è un’onta e ogni ora ulteriore di indugio è un’ora di disonore. Organizzo un’escursione nelle Catacombe per l’indomani. Il sentimento è così forte che né la voglia di riposare né uno sciopero nazionale dei treni possono trattenermi, e spendo tutto il denaro regalatomi per la laurea per imbarcarmi sul prossimo volo per Parigi.

Gli arcani, taciti, onnipotenti computi di età, salario e relazioni che mi condannano senza appello in ogni bar, ufficio o social network sbiadiscono man mano che dalla mia stanza affittata a nero mi muovo verso l’entrata dei tunnel. A nessuno laggiù importa quanti anni abbiamo, che lavoro facciamo: a volte ce lo diciamo, ma sono trattate come informazioni senza importanza, come se si parlasse del colore preferito o di cosa si ha mangiato a colazione. Persino il mio corpo un po’ sovrappeso, l’irsutismo e la goffaggine di trucco e pettinatura perdono salienza nella luce scarsa, localizzata e funzionale delle torce. Ci immergiamo nell’oscurità spogliandoci dei nostri attributi di carta e delle nostre aure di voci, siamo nudi punti di calore su una mappa di pietra. Sagome pressappoco uguali per grandezza e dignità, ci distinguono solo le nostre coordinate cangianti: diventiamo più astratti, diventiamo più umani.

Raggiunto il Carrefour des Morts, proseguiamo verso nord seguendo il tracciato dei sentieri del cimitero di Montparnasse fino a raggiungere Boulevard Edgar Quinet, poi rue Huygens, dirigendoci verso il grande bunker tedesco della seconda guerra mondiale, all’estremità nord della rete. Avvicinandoci diventiamo disorientati e non capiamo quando esattamente ci siamo arrivati. Molti membri della comitiva sono stanchi o hanno fretta. Marciamo spediti, di svolta in svolta, la mia lenta accuratezza incompatibile ormai con il ritmo generale, e procediamo di pancia, d’istinto, seguendo i punti cardinali e avvalendoci della supposta expertise di un membro del gruppo professionista dello snorkelling. 

Nonostante tutto, arriviamo alla meta: ce ne rendiamo conto vedendo le pesanti porte blindate e le scritte in tedesco sulle pareti, “Rauchen verboten”, “Hinterhof”. Delle frecce rosse, nere e blu indicano le vie d’uscita di allora. Una porta è sfondata come da un’esplosione, e congetturiamo che sia stata fatta saltare in aria al momento della presa del bunker. Restano alcuni arredamenti e accessori: in una stanza troviamo una piccola sedia semi-distrutta ma ancora funzionale accanto a quelli che sembrano apparecchi telefonici o radiofonici, due gusci metallici sventrati e saccheggiati ma contenenti ancora frammenti di ingranaggi, fili e mensoline. In un’altra sala, troviamo un bagno chimico, un bidone con un buco in un piccolo spazio isolato. Ci sono molti spazi così, anche se per la maggior parte vuoti, che evocano l’uso abitativo di questi sotterranei, insieme ai vecchi e spezzati fili della corrente. Saliamo una rampa di scale spaziosa con tanto di corrimano, di quelle che conducevano agli edifici adibiti dai tedeschi a quartier generale, nell’area del Senato, del Lycée Montaigne e della facoltà di farmacia, per arrivare di fronte a un impenetrabile portone sigillato. Proseguendo verso sud, muri e file di piloni massicci e paralleli creano corridoi stretti e spogli come in stalle di pietra; ci avventuriamo per un po’ lungo un corridoio perpendicolare e ci perdiamo brevemente in quel labirinto dalla pesante e rozza simmetria. Non sappiamo bene fino a quando siamo ancora nel bunker e quando ne siamo usciti, mentre poco a poco la regolarità massiccia lascia il posto ai soliti tunnel terrosi e sinuosi. Non riuscendo a capire bene dove siamo sbucati, e resi riluttanti di fronte ad avventure nell’ignoto dalla fretta di alcuni, ritorniamo indietro da dove siamo venuti, attardandoci ancora un po’ a osservare e fotografare le poche vestigia del passato del bunker, a sbirciare nelle nicchie e attraverso le porte superstiti socchiuse. 

Prima di rimprendere spediti il viaggio di ritorno di diversi chilometri, ci fermiamo a mangiare un boccone e bere un bicchiere di whisky in una piccola ed elegante saletta in prossimità dell’accesso ovest del bunker. Un bel candeliere decorato con motivi vegetali pende dal soffitto, e dei bassi cilindri in muratura, come pozzi o piccoli anfiteartri, sembrano i graziosi tavolini di un bistrot. Ci sediamo appartati in un angolo intorno a una lastra di pietra, su una sorta di panca anch’essa di pietra che la circonda, addossata a una parte della parete che sembra il fianco rugoso di una montagna, in contrasto con il soffitto liscissimo. Mentre beviamo, un rumore proveniente da appena oltre l’ingresso della sala ci spaventa: è un rumore come di una borsa di plastica pestata o mossa. Ma non c’è nessuno oltre a noi: al fruscio non seguono passi né voci. Immaginiamo l’avvicinamento furtivo di un malintenzionato, scherziamo sul soprannaturale, il mio amico cerca di sorprendere il colpevole con uno scatto di corsa verso l’origine del suono, senza successo, alla fine concludiamo che deve trattarsi di un topo o qualche altro animale del genere. Finito lo spuntino, spegniamo i lumini che ormai il mio amico ha preso l’abitudine di accendere per illumiunare tutti i nostri momenti conviviali laggiù, raccogliamo tutti gli imballaggi e gli avanzi e ci rimettiamo in cammino. 

Ricordando i ragazzi che abbiamo visto diverse volte inoltrarsi in tunnel fuori dal tracciato principale, specialmente sotto al parco di Montsouris, con casse e radio con musica d’atmosfera, decidiamo di provare anche noi a rendere la marcia più piacevole e leggere con della musica adatta. Riscuote successo un album che ho nel telefono con varie sinfonie di Beethoven, che ascoltiamo a ripetizione per tutta al durata del cammino. Troviamo che le note solenni e marziali della quinta sinfonia risuonino in modo particolare con la nostra marcia nella profindità di quell’immenso, antico alveare di pietra. Camminiamo molto velocemente e ci sentiamo tutti molto di buon umore, chi è davanti avvisa chi è dietro di buche, dislivelli e soprattutto soffitti bassi, su cui è molto facile sbattere la testa. Gli avvertimenti rimbalzano lungo la fila. Arriviamo all’uscita in men che non si dica, sia perché siamo stati oggettivamente veloci, sia perché il tempo è volato nel nostro gioioso ed energico marciare. Una volta riemersi è notte, siamo affamati, e non torniamo a casa prima di un sostanzioso pasto da Subway e qualche birra.

Dopo meno di due settimane, torniamo con l’obiettivo di esplorare l’area est del GRS, dove non siamo ancora mai stati nonostante vi si trovino alcuni tra i landmark più noti come la grande Salle Z e la tomba di Philibert Aspairt, il nume tutelare dei frequentatori delle catacombe. Ci siamo organizzati per restare a lungo, non abbiamo fretta e indugiamo nella Plage e nel Cellier per scoprirne nuovi angoli e mostrarli ad alcuni nuovi membri della comitiva. Arrivati al solenne crocevia della grande testa scolpita proseguiamo lungo il corso dell’acquedotto verso est, per la prima volta. Andando avanti notiamo tunnel più friabili e terrosi, e ci imbattiamo in una piantina solitaria chissà come, chissà perché spuntata in quella crepa inospitale, in quello spazio buio e chiuso completamente minerale fino a un paio di secoli fa. Camminiamo sotto Rue Broussais, e quando compare un curioso muro che divide la nostra strada come in due corsie facciamo una deviazione in un piccolo complesso di sale che si apre a partire da quella a est. La porta è così stretta che lasciamo gli zaini all’entrata, e ci aggiriamo per le piccole Salle des Dinosaurs, rappresentati su una parete, e Salle Zlard, chiamata così per via di una placca mentitrice che informa di essere nella inesistente Rue Zlard, e in cui abbiamo letto che si usasse attaccare la propria amaca per riposarsi un po’. Incrociamo rue Dareau e continuiamo verso nord est, cercando con qualche difficoltà di identificare una roccia scolpita a forma di testa d’orso che orna questo tratto. Pieghiamo a ovest, lungo un tratto del Boulevard Saint-Jacques, fino a incrociare Rue (du Faubourg) Saint-Jacques e trovarci davanti al suo asse sud-ovest nord-est. Quest’ultima è la direzione del nostro itinerario; ma dall’altra parte la galleria smette di essere tunnel o passaggio, trasformata in galleria d’arte da una serie impressionante di murales di altissima qualità. Le pareti illuminate dalle torce si aprono su cicli di scene e personaggi variopinti e ci troviamo a camminare estasiati e stupiti tra minatori, chiostri, supereroi, operai, cavalli in corsa, facciate di palazzi, interni di case, la cattedrale di Notre-Dame, in questo paradossale, incantato museo d’arti visive senza luci, a venti metri dal cielo. Si chiama Galerie des promos. Promos si riferisce alle promozioni all’Ecole des Mines, celebrate con graffiti in questa galleria dalla metà del diciannovesimo secolo. La qualità dei graffiti è diventata quella di veri e propri affreschi negli ultimi decenni, e pare che la traduzione perduri tutt’ora e ogni anno venga scelto un tema tradotto poi in immagini sulle pareti della galleria da alcuni studenti. All’estremità sud la galleria è murata, probabilmente per via della sua vicinanza agli ossari ufficiali. 

Dopo uno sguardo veloce al piccolo parallelepipedo della Salle des Repos nei pressi del crocevia, proseguiamo verso nord est e visitiamo un Cabinet Minéralogique, una stanza in cui piani e mensole ora spogli fungevano da espositori di campioni minerali e altre curiosità, e al centro una costruzione in pietra a gradini illustrava la stratificazione del sottosuolo parigino. Su una placca intagliata alla sommità di quest’ultima si legge: «Bancs de pierre de cette carrière / De la surface de la terre au banc de roche 13 mètres – 40 pieds». 

“Au XIXe siècle, lorsque la confortation des carrières souterraines de Paris bat son plein, l’inspecteur général des carrières Héricart de Thury a l’idée de créer des cabinets de curiosités spécifiques aux souterrains de la capitale. Organisés de la même façon que ceux de la surface, ces cabinets souterrains exposent des collections de minéraux, d’ossements ou d’échantillons des couches géologiques issues du Lutétien. Ils seront construits avec un soin tout particulier, bien qu’ils soient dépourvus d’utilité pratique du point de vue du travail mené en carrière. En effet, ces cabinets symbolisent un certain souci du savoir et des sciences, qu’ils montrent d’une façon théâtrale et volontiers néoclassique. Chacun d’entre eux porte le nom d’un inspecteur des carrières. Sept cabinets vont ainsi être aménagés.” [link wiki]

Questo Cabinet Minéralogique, che fu costruito dal “conducteur des ateliers Saint-Jacques” Gambier-Major (inizio del diciannovesimo secolo), è l’unico a essere attualmente integro e accessibile. 

Continuiamo a seguire rue Saint Jacques verso nord, per un lungo tratto rettilineo che ci porta nei pressi di molti punti di interesse come la cripta, un livello inferiore in muratura con raffinati bassorilievi, e i sotterranei dell’Observatoire de Paris, costruito alla fine del diciassettesimo secolo sopra a gallerie risalenti al medioevo e consolidate per l’occasione che in seguito furono usate a fini scientifici e come rifugio durante la Seconda Guerra Mondiale, che purtroppo tuttavia non riusciamo a raggiungere. Inaccessibili per noi sono anche le medievali Carrières des Capucins che superiamo poco dopo, essendo incorporate in un museo. Presto arriviamo all’altezza dei Souterrains du Val de Grace, l’intricato e vasto groviglio di gallerie e sale di cui fa parte l’immensa Salle Z.

Perdo presto l’orientamento mentre il mio amico ci guida attraverso una stretta e sabbiosa biforcazione in pendenza, c’è già stato e sa che bisogna svoltare in quel punto perché la via segnata sulla mappa è stata bloccata. Ci congediamo dal liscio rettilineo di Rue Saint-Jacques e ci inoltriamo in una imprevedibile e sfidante varietà di possibili direzioni, terreni, altezze. Ponderare ogni svolta non sembra avere più senso, e ci lasciamo trasportare dalla curiosità e da un senso istintivo dello spazio. Passiamo e ripassiamo per salette con nomi, storie e usi che non sappiamo decifrare, saliamo e scendiamo scale svincolate da piani, e raccogliamo le rare scritte delle targhe sulle pareti come le briciole di Hansel e Gretel per avvicinarci alla Salle Z. 

Ci arriviamo infine, dopo essere passati per la cognitivamente rassicurante Salle des 3 chaises, venendo dalla direzione di Rue d’Ulm; scendiamo una scala prima salita invano, attraversiamo uno stretto e alto corridoio e l’enorme sala si apre davanti a noi come una valle in una notte senza stelle. Capiamo di esserci perché non si vede il fondo del vuoto davanti a noi, e il soffitto, sorretto da una foresta di imponenti pilastri in muratura, è alto come quello di un palazzo. Come per tutta l’area circostante, dobbiamo queste architetture principalmente allo sfruttamento del suolo medievale e alla consolidazione intrapresa dall’architetto François Mansart per le costruzioni nel quartiere Val de Grace affidategli sotto Luigi XIV. Ci inoltriamo emozionati sotto le volte, da alcune delle quali gocciola acqua maleodorante, che forma in alcuni punti pozzanghere e rigagnoli melmosi. Seguendo un percorso tortuoso cercando di evitarli e attirati da ogni nuova propaggine della sala, raggiungiamo infine all’altra estremità un confortevole angolo in cui un lastrone di pietra circondato da altri pezzi invita a sedervisi intorno come a un tavolo. Accendiamo i nostri lumini e condividiamo un po’ di pane e formaggio, del vino e un energy drink per pranzo, divertendoci a immaginare come devono essere le feste di cataphiles che abbiamo sentito che sono o erano solite svolgersi qui.

Riposati e sazi dopo non molto ci rimettiamo in cammino, per raggiungere la tomba di Philibert Aspairt. Non è lontana: ritornati su Rue Saint Jacques proseguiamo per un po’ ancora verso nord, poi svoltiamo a ovest, e imbocchiamo un meandro a gomito un po’ disorientante e molto scuro e sobrio, per trovare infine la stele commemorativa in una nicchia quadrangolare sulla nostra sinistra. Si sa poco di certo su Philibert Aspairt. Custode dell’ospizio del Val de Grace, nato nel 1732, discese nelle gallerie nell’autunno 1793; probabilmente vi si perse e il suo corpo fu rinvenuto 11 anni dopo, nella primavera del 1804, e sepolto nel luogo del ritrovamento (sotto l’attuale Rue Henri-Barbusse, allora Rue d’Enfer) — come recita l’epitaffio:

« À la mémoire de Philibert Aspairt perdu dans cette carrière le III (3) Novbre MDCCXCIII (1793) retrouvé onze ans après et inhumé en la même place le XXX (30) avril MDCCCIV (1804) »

Si racconta che cercasse di appropriarsi illecitamente di tesori o di mettere le mani sui magazzini di chartreuse prodotta dai monaci certosini, situati sotto al Jardin du Luxembourg. Oggi è stato assunto nel pantheon delle catacombe nel ruolo di una sorta di santo protettore dei cataphiles, e pare che come i santi cattolici abbia anche la sua data, il 3 dicembre. Mentre osserviamo la tomba cala un’atmosfera sacrale, parliamo a voce più bassa e l’aura del luogo ci impone di dedicare tutta la nostra attenzione e le nostre parole a Philibert. Leggiamo e decifriamo l’epitaffio, discutiamo della sua morte, di come deve essere stato orribile non ritrovare mai più l’uscita, se nella sua situazione, senza le nostre mappe e bussole, avremmo avuto più speranze di lui, e poi come potrebbe essere morto per un malore o qualsiasi altra causa mentre ma non perché si trovava lì, diversamente dallo scenario di sepolto vivo evocato dalla lapide. Decidiamo di onorarlo accendendo alcune candele che abbiamo portato e facendo un minuto di silenzio di fronte alla sepoltura.

Doppia

Ieri le due parti in cui sono divisa sono venute alle mani facendomi subire tutto il dolore, lo strazio della lacerazione. Ogni tanto capita, è inevitabile. Sono così diverse, eppure come gemelli siamesi condannate a un abbraccio fatale. Ma vi sono condannate non come gemelli siamesi dalle leggi della fisica, bensì da leggi più oscure e complicate. L’una è colei che si fa violenza, si impone disciplina, per conformarsi alle richieste che provengono dal mondo. Fa di se stessa materia da plasmare senza pietà, macchinario da sfruttare al massimo per ottenere il miglior risultato, i complimenti, i titoli, i voti, il riconoscimento. L’altra è ribelle: segue i suoi impulsi, s’infiamma di questo e quello fregandosene di quel che significano per gli altri e il mondo, basta a se stessa, è entusiasta, audace, una meteora, un cane sciolto; scalpita, morde il freno, esplodere e spezzare le catene è la sua vocazione. Eppure tragicamente, con tutta questa energia straripante, essa non sa vivere da sola; perché non sa stare al mondo; perché il cibo, il tempo, finanche le parole con cui si esprime sono comprati dagli sforzi dell’altra. La sua vocazione è la sua rovina, è la caduta senza freni in un abisso inarticolato. Ma nemmeno l’altra può stare al mondo da sola: i suoi sforzi sono faticosi e richiedono energia, e questa energia non può venirle da nessun altro se non la gemella visionaria. Solo per lei lavora, solo per lei soffre; non potrebbe lavorare e soffrire per niente altro. Non avrebbe senso. Eppure nel lavorare e nel soffrire per lei, al tempo stesso la calpesta e la soffoca. Sii paziente le dice, più sofferenza oggi per più libertà e gioia domani. Ma non c’è domani per la gemella, lei vive nel presente. Si sottomette un po’ per curiosità e un po’ per fiducia, e l’altra è portata dalla sua stessa logica ad approfittarne per trarre il massimo vantaggio. La gemella allora tradita insorge trasformando le sue forze in forze distruttrici. Vorrebbe spaccare tutto per asserire la sua libertà, e le più gravi minacce dell’altra a stento bastano a impedirle di fare le peggiori sconsideratezze.