come con le espressioni a scuola

Da bambina odiavo la matematica. Non la odiavo perché non la capivo: anzi, capivo a una velocità e con una profondità che, se qui nel mondo dei grandi sono ritenute lentezza, superficialità o finanche semi-idiozia, per quell’età non erano male, anzi i professori dicevano che ero una bambina “brava in matematica”.
La odiavo perché bastava un errore di distrazione per rendere vani lunghi ragionamenti e calcoli, una svista nel punto sbagliato ed era tutto da ricominciare. Ai numeri e alle regole non fregava niente che padroneggiassi le teorie che ne spiegavano il comportamento, che affrontassi i problemi con ragionamenti validi e originali, tantomeno che “mi applicassi”. Uno stupido errore di distrazione e tutto questo crollava come un castello di carte davanti al duro fatto che il risultato non era quello giusto, e bisognava tornare indietro. Un po’ come al “gioco dell’oca”, ma con una patina di meritocrazia.
Odiavo nella matematica quel che mi spaventava della “vita reale”, dove gli errori si pagano e non importano i loro perché, i loro ma, i loro contesti. Anche per questo adoravo così tanto studiare sui banchi di scuola: c’era sempre un’altra chance, e in quell’ambiente costruito apposta per aiutarci a pensare e imparare era più facile non farsi tradire da variabili trascurate o giudizi affrettati.
Quel che sentivo oscuramente odiando la matematica si è puntualmente fatto concretissimo, e troppo presto la mia esistenza ha preso il corso di una di quelle maledette espressioni — in versione ingigantita, appesantita, unica e ineluttabile.
Buone premesse dentro alla testa e al cuore, passione, potenzialità, ambizione, che fuoriuscendo quasi senza sforzo mi aprivano porte e mi spingevano avanti verso una meta opaca chiamata realizzazione (di cosa?). Avevo delle capacità, dovevo solo giocarmele bene e non fare stupidaggini.
Ma presto mi è toccato scoprire che basta una stupidaggine nel punto sbagliato, per seppellire buone premesse e capacità sotto un soffocante strato di negazioni. Una stupidaggine nel punto sbagliato, e bisogna tornare indietro, non di qualche casella o di qualche “passaggio”, ma di anni. Anni durante i quali gli altri vanno avanti con le loro espressioni, alcuni bruciando orgogliosamente le tappe, altri seguendo la tabella di marcia stabilita, e lo sfortunato distratto resta sempre più indietro mentre scruta miserabile la sequenza di decisioni che lo ha condotto alla situazione senza speranze di avere nella realtà un nemico. A volte altri errori si accavallano, nella frenesia della non rassegnazione, quando si cerca di minimizzare il danno. E si torna ancora più indietro, ancora più anni, ancora più stigma.
Quello che si era prima, l’identità riconosciuta ambiziosa e capace che si poteva indossare come un abito da festa, si smaterializza sotto i colpi dell’implicito negli sguardi e nelle parole di colleghi e amici: io alla tua età…, tu sei “indietro”, ergo…
Ogni tanto, come con le espressioni a scuola, trovo tutto questo assurdo. Dopotutto, sono sempre la stessa persona! Il mio QI non si è abbassato perché quella mattina mi sono svegliata troppo tardi dando il via a una catena di eventi che mi ha resa debilitata per alcuni mesi, mesi cruciali perché erano gli ultimi che avevo per laurearmi; né perché quell’altro giorno, sei mesi dopo, ho accettato il suggerimento di partecipare a un concorso, infine andato male, che mi ha prosciugata di tutto il tempo e l’energia di cui avrei avuto bisogno per costruire un abbozzo di futuro che non fosse fuori tempo massimo. Io sono sempre la stessa persona, quella che vari professori dicevano avrebbe potuto fare una buona carriera, quella che se oggi rifacesse gli esami prenderebbe gli stessi buoni voti. Me lo ripeto come un mantra.
Eppure, proprio come con le espressioni a scuola, ai numeri e alle regole sociali non frega niente delle potenzialità, delle idee, delle passioni, dell’impegno. Tutto questo crolla come un castello di carte davanti al duro fatto che il risultato non è quello atteso e prescritto.