Ho di recente finito di ripagare un grosso debito. Lo avevo contratto nella convinzione che perdere il lavoro fosse quasi impossibile, per sfizio più che per bisogno, denaro scialacquato in spese inutili e rozzamente edonistiche. Un albergo un po’ più bello, corse in taxi, pezzi d’arredamento, pasti a domicilio e chissà quant’altro di così poco importante che l’ho dimenticato. Non c’è stato tempo per mangiarmi le mani quando tutto è andato storto, solo una corsa frenetica contro il tempo per salvare il salvabile e scappare con ancora un po’ di spiccioli in tasca, una manciata di neuroni superstiti e uno scorcio di futuro (il fegato era già irrecuperabile). Sono partita di fretta come un ladro, verso un altro paese, senza riuscire, per pigrizia e per demenza, a recuperare nemmeno quel che il fisco mi doveva e facendomi multare dalla compagnia telefonica per mancata restituzione dell’apparecchio (ma ho scordato di pagare). Ho reso quel che dovevo all’ex datore di lavoro in cinque rate da tremila euro l’una, ogni mese inviare il denaro era un macabro rituale. Da un po’ vivo con dei fondi pubblici arraffati con false credenziali di aspirante statistica – non sono molti e tra poco finiranno, non vedo l’ora di essere libera dalle piccole responsabilità e finzioni che mi impongono. La libertà liquida, scivolosa e tiranna del denaro proprio non fa per me: si accettano pagamenti in natura.
Month: July 2019
vecchie conoscenze
Vi racconto un pezzo della mia giornata.
Mi sveglio di pessimo umore. Per i male informati vivo e lavoro in Francia, ma non riesco a imparare il francese per il mio basso Q.I. e per la mia pigrizia colpevole e l’incolpevole rincoglionimento da farmaci vari il cui uso sano e responsabile è finito giù nello sciacquone di traslochi, fallimenti traumatici e generico stress. Esco di casa in ritardo e molto irritabile. Nella metro rifletto su come guadagnarmi la pagnotta una volta che, tra pochi mesi, il mio stage sarà terminato.
Al momento ci sono due tipi di seccature nella mia vita, quelle eliminabili e quelle ineliminabili. Ineliminabili: sognare ogni notte l’impossibile perdono delle persone che, un anno fa, in seguito a un attacco di esasperazione e tristezza con cui li infastidii e turbai mi tolsero la patente di umanità, ingrassare costantemente e dormire dieci ore a notte a causa della terapia, la solitudine. Eliminabili: l’umiliazione dei commenti altrui sui miei limiti intellettuali, lo stress di compiti al di sopra della mia soglia di esaurimento della pazienza e dell’energia, i ritmi di vita troppo veloci.
Voglio andare in qualunque posto con qualsiasi mansione che mi permetta di eliminare queste ultime. Voglio un lavoro facile con persone facili che apprezzino quel poco di sale che ho in zucca senza puntare il dito contro quel tanto che manca. Voglio che mi restino tempo ed energia liberi per dedicarmi alla mia passione per la frequentazione superficiale di tutto ciò che è connesso alle humanities.
Sono particolarmente interessata a posizioni come il portiere notturno, magari in un albergo. Stare sveglia la notte è per me più facile che il giorno, e parlo abbastanza bene l’inglese (i professori dicevano anzi in maniera eccellente, ma i test standardizzati hanno smentito questa valutazione affrettata distruggendo nel mentre le mie giovani ambizioni di carriera accademica. Da allora però – aggiungo questa frase qualora qualche potenziale datore di lavoro stia leggendo – ho vissuto per sei mesi in Regno Unito). Grazie anche ai consigli di un’amica, alcune altre possibilità allettanti si affacciano alla mia mente. Dopotutto forse conseguirò una laurea magistrale, è un buon titolo, forse posso insegnare, forse posso fare l’assistente sociale.
Tuttavia un veloce controllo online mi insegna che la laurea magistrale che ho ingenuamente scelto (la LM88, segnatevelo) non è né carne né pesce e non consente dunque nessuna delle due opportunità. Non era un caso se eravamo in così pochi iscritti a quel corso. Lo avevo scelto perché amavo la disciplina, in un momento in cui, molto fiduciosa nella mia intelligenza, non pensavo al futuro e davo per scontato che sarei riuscita a realizzare il mio sogno infantile di fare la ricercatrice. Forse in un giorno lontano ce la farò, ma per adesso ho bisogno di tempo, e il tempo costa caro.
Sono ancora sotto una specie di choc per questa altalena emozionale e per il cattivo umore odierno quando esco in pausa pranzo per incontrare un ex compagno di università che sta partendo per le vacanze. So che non mi stima, non ha mai esitato a esplicitare quelli che a suo parere sono i miei gravi deficit caratteriali e intellettuali. Mi fa comunque piacere incontrare un viso noto, un viso che per di più è collegato ai giorni incantati in cui dissipavo la mia vita in maniera spensierata e munifica, certa delle future chances.
Mi annuncia che sarà con noi anche uno dei membri di quel piccolo gruppo che sogno spesso, la cui condanna senza appello ha avuto un impatto così negativo sulla mia esistenza. Giudicando ormai comunque irrecuperabile la giornata, decido di non annullare l’appuntamento, facendomi forza: devo saper celare la mia situazione derelitta per evitare di regalargli un soddisfacente pensiero del tipo “ecco, ben le sta”. Eppure non voglio nemmeno che mi veda felice. Devo apparire di successo, ma malinconica. Che fatica, che complicazione, so che non ce la farò mai, io che non sono mai stata capace nemmeno di raccontare una balla. Comunque vado a truccarmi nel bagno dell’ufficio ed esco.
Sfoggio la mia migliore formalità amichevole, ascolto e faccio osservazioni sulle storie degli altri per non dover parlare della mia. Eppure presto emerge che la mia nemesi sa molto riguardo a me. Di recente è stato ospite delle stesse persone delle quali ero stata ospite io in occasione di un concorso, andatomi poi male (con conseguenze catastrofiche sulla mia già precaria situazione lavorativa, finanziaria e psicologica, la cui portata ho però ragione di credere non sia del tutto nota al di fuori della mia famiglia, grazie a Dio). Sa quindi del mio tracotante tentativo di superare quel selettivo concorso e della batosta. Sa anche della mia intenzione di tornare nella città dove ho studiato, per mendicare un po’ di compagnia mentre cerco di arrivare a fine mese!. Questa informazione è tuttavia di natura meno ufficiale, poco più di un’intenzione confidata a qualche amico, quindi ne nego la veridicità. Faccio un po’ la spaccona dicendo che vivo alla giornata e che non so e non voglio sapere troppo precisamente che fine farò e dove sarò nel periodo a venire. Riguardo al concorso invece, ritiro fuori l’argomento io stessa poco dopo, per mostrare che la questione è per me superata e accettata. La mia performance di autocontrollo e window dressing non è male nel complesso, le assegnerei un 7 e mezzo su 10. Eppure non è sufficiente.
Il mio odiatore infatti non si lascia sfuggire l’occasione di una stilettata vendicativa, quando gli chiedo come gli è parsa la città dei nostri studi al suo recente ritorno. Mi risponde che gli è piaciuta molto, molto più di quando, nell’estate 2018, – tra le righe: a causa tua, delle tue “violenze psicologiche” e “comportamenti devianti e immorali”, così loro definivano il mio disagio e la mia incapacità di autocontrollo, tema principale proprio di quell’estate- la vita lì era per lui molto angosciante. Non ho modo di rispondere, e nemmeno voglio, sarebbe terribilmente inappropriato scatenare un litigio così virulento come quello che le sue parole chiamano, in quel bar parigino e di fronte al terzo amico.
Così ha vinto ancora lui. Ancora una volta la mia debolezza prende la forma di una colpa, ancora una volta il suo comfort turbato ne fa una povera vittima, ancora una volta la reazione oltraggiata davanti al brutto e all’incivile nelle grida e suppliche di chi affogando tende disperatamente la mano in cerca d’aiuto è sacrosanta. Sono desolata se per salvarmi dal peggio ti ho pestato un piede, sono desolata se mentre stavo sprofondando nell’abisso più nero ho secreto della fastidiosissima angoscia nella tua serena routine. E tu, sei desolato di avermi portata per mano sull’orlo del suicidio? Sarebbe stato carino sentirti esprimere almeno un pizzico di dispiacere, invece dell’autocommiserazione e della condanna a denti stretti, perché quel che ho fatto è troppo sporco e impuro anche solo per entrare in contatto con la tua lingua immacolata.
E sai la cosa che più mi strazia? Che forse hai ragione. Forse è vero che la tua pace valeva più dei miei capricci, la mia vita aveva un cappio intorno ma in ultima analisi ce lo avevo messo io, e nessuno tranne me doveva pagare il prezzo delle mie scelte scellerate e dei loro effetti indesiderati. La carità è bella perché è dispensata gratuitamente e liberamente, in maniera non richiesta. Un bene crudele, questa pietà, che al grido del bisognoso che la chiama per nome si dematerializza – un bene aristocratico che dall’alto osserva e giudica e fa cherry-picking, un bene sfuggente che non impegna il benefattore oltre ai limiti volatili della sua voglia, un bene dei buoni per i buoni. Tu hai ragione, le mie invocazioni erano violente e contrarie all’ordine delle cose, e peraltro se trovo che l’ordine delle cose sia crudele non ha certo senso che me la prenda per questo con te e i tuoi compari. O no?
messaggio ai vincitori
Mentre torno verso casa dopo una serata in centro, i professionisti curati e dinamici si diradano per lasciare spazio a sempre più gente stramba, sfigata, ubriachi e derelitti senza speranze. Forse è vero che è saggio frequentare persone del proprio livello. Conosco bene ormai questa sensazione schizofrenica. La sensazione di capire, che i miei pensieri abbiano un valore, inculcatami da qualche maestro delle scuole di ordine inferiore e scelleratamente confermata da un paio di selettivi concorsi superati per una botta di culo. E la sua imperiosa smentita da parte di autorità che non riconosco del tutto ma che al tempo stesso nemmeno posso disconoscere. Professori universitari, conferenzieri, colleghi, manager, giovani donne e uomini in carriera conosciuti al bar, il mondo che ce l’ha fatta. Forse proprio quel mondo di cui quei maestri e quelle maestre speravano che, con i loro incoraggiamenti e le loro benedizioni, avrei potuto entrare a far parte (ricordandoli con gratitudine). No, mi dispiace, vi ho delusi, anche se immagino che non ve ne freghi un cazzo perché chissà quante bambine e bambini avete sviato con le vostre carezze velenose. Ma non ho deluso me stessa, e non perché con orgoglio consapevole e permaloso rifiuto di adeguarmi ai cosiddetti standard, no (non solo) ma (anche) perché non esiste nessuna me stessa al di fuori della credenza, della fede, nel mio proprio pensare. Debole, lacunoso, lento, pigro, ammalato, ma tutto quello che ho per dare senso a questa vita. Per questo ogni tanto penso che dovrei smettere di frequentare gli eletti che il mondo reale ha autorizzato a ritenersi superiori, che con il loro mal celato o dichiarato disprezzo per la mia debolezza e la mia stupidità mi ricordano sempre quanto poco il mio senso e la mia vita valgano. Non so cosa mi attragga a svolazzare masochista intorno alla loro luce come una brutta falena marrone. Comunque vorrei mandar loro un messaggio.
Sì, in questo mondo voi siete i vincitori. Secondo le leggi di questo mondo, voi valete più di me e dei miei simili, in dollari prestigio probabilità di riprodurvi ecc. Ma questo mondo non è mai stato, non è e non sarà mai l’unico possibile. Potete cancellare le tracce del nostro passaggio, i nostri valori, potete chiuderci la bocca col vostro scherno, col vostro schifo e con la vostra beneficienza. Ma non potete cancellare le possibilità. Lo sapete meglio di me, in fondo, che poteva andare diversamente. Che quella che chiamate ragione è solo uno tra i tanti modi di pensare, che quella che chiamate intelligenza è solo una tra le tante abilità che fanno di una persona una persona capace, che quello che chiamate successo è solo il frutto di un favoritismo tra simili arroccati in un monopolio costruito con la forza. La vostra esistenza e il senso della vostra vita sono contingenti proprio come i nostri, anche se voi avete costruito degli esclusivi palazzi e miti per nascondervi da questa spaventosa verità, con la cui ombra oscura, inquietante e traditrice noi invece conviviamo spalla a spalla. Forse è proprio per questo che, nonostante tutto, vi facciamo paura.
Firmato
Una perdente