dummier than dummies

Siamo ingegneri, risolvere problemi è il nostro mestiere. Sguardo ammiccante. Un mantra che ormai ho sentito una dozzina di volte. Ma una miriade di fattori si intrecciano pazzamente e mi impediscono di portare a termine anche i passi più semplici. Premo invio per l’ennesima volta e fisso, con apatica e un po’ affascinata e superstiziosa passività, le linee di testo susseguirsi a velocità vertiginosa nella console mentre il mio codice viene testato (mentre il the test is run, e corre davvero, come corre! Ma ci vogliono comunque una decina di minuti perché il sistema, costruito da altri ingegneri molto migliori di me, determini se il mio codice funziona e regge come mattoncino di una grandissima e complessa architettura per me misteriosa). Trial and error. Ignoranza, lentezza e semplicità di spirito non mi lasciano altre vie. Non conto più i tentativi da stamattina. A ogni nuovo tentativo modifico alla cieca  qualche dettaglio sperando che sia quello decisivo. I colleghi mi osservano e incoraggiano con fatalismo, funziona così, è così che si fa, ci siamo passati tutti. Hai controllato x y e z? (ovviamente no, nemmeno sapevo esistessero). Oh sì quello certo, rispondo. Finisco il nauseabondo caffè con nonchalance e mi precipito alla scrivania. X y e z sono acronimi criptici che non so decifrare. Dovrei chiedere ma tutti ne parlano con tanta certezza di essere compresi! Per fortuna nella mia cronologia riesco, ancora attraverso un laborioso trial and error, a trovare un sito che è una specie di enciclopedia interna dove le nozioni aziendali sono, se non proprio spiegate, almeno riferite. Qualcuno ha scritto una guida for dummies su come controllare y. Per x, bisogna invece contattare il team a. Z non è spiegato – almeno so che ho il diritto di non saperlo. Seguo la guida per y. Errore. Ah, ero disattenta, ho dimenticato il secondo sotto-punto del terzo punto. Che idiota. Altro che smart. Altro che ingegnere che risolve problemi. Ricomincio. Errore di nuovo. Perché?!?! Ah, ho sbagliato a digitare. Questo l’ho visto capitare anche ai migliori ingegneri. Sollievo. Ricomincio. Test riuscito. Ho controllato y, y non era il problema, un terzo della mia menzogna di prima è ora verità.

Nel frattempo è calata la sera, l’ufficio si è svuotato, gli addetti alle pulizie nelle loro divise blu hanno cominciato a sciamare indaffarati tra i tavoli e i computer. Siamo rimaste solo io e la più fanatica workaholic del mio team, e qualche genio ribelle della programmazione. In generale restare in ufficio dopo le 19 denota povertà di relazioni e lentezza, salvo doti e passione eccezionali e risapute. Lei, sola e lenta ma attenta dell’etichetta, leva l’ancora alle 19.05. Nell’uscire mi rimprovera. Io mi schermisco rispondendo sorridente che è solo per stasera, che è perché sono entrata un po’ in ritardo stamattina e perché sto giusto finendo questa cosa. Lei mi dice ok ma non fare tardi mi raccomando, e sgambetta via. Io, sola e lenta e senza onore ma piena di gioia per aver con successo portato a termine i passi elencati nella guida for dummies, voglio restare ancora un po’ a godermi il trionfo fissando il mio schermo calmo e riappacificato con il fattore y. Mi sento piena di speranza e motivazione, mi sento come se finalmente ce la sto facendo, a diventare un vero ingegnere che risolve problemi. È irrazionale, niente mi è più chiaro di prima, non ho nemmeno portato a termine la mia mansione, ma la magia di calcoli imperscrutabili e sfocianti in un incontestabile sebbene per me opacissimo ‘successo’, innescata dai miei, proprio miei, diligenti clic ora qua ora là e persino qualche semplice comando digitato, mi riempie di un altrettanto opaco ma incontestabile orgoglio. Riguardo le istruzioni, scorro velocemente su e giù la schermata in un gesto di dominio — posso giocare con te adesso, non ho più bisogno di dedicarti tutta la mia attenzione, non dipendo più da te, ti padroneggio. Con un senso di fine di una giornata di lavoro degna che non sentivo più da tempo, metto in stand by il pc, getto la spazzatura prodotta in undici ore di stress e snacks, infilo alla rinfusa i miei oggetti nello zaino ed esco sorridendo al guardiano notturno che seccato ma rassegnato alla mia smemoratezza mi ripete per l’ennesima volta che quando si esce dopo le 19 bisogna usare la porticina laterale.

La strada verso casa, crudelmente dilatata al mattino dalla pendenza e dal sonno, è ora contratta in una breve e piacevole passeggiata. Neanche il tempo di cucinare una pastasciutta, e scivolo dolcemente nei miei istinti peggiori, l’alcol, la compulsazione frenetica dei social network, e infine il sonno.

Dopo un doloroso, esitante e dubbio risveglio, si torna a rapporto: qualche biscotto trangugiato se va bene, pratiche igieniche minime ancora se va bene, una pedalata frenetica e sfiancante e, se va proprio bene, posso fare in tempo a bere un caffè e dar due linee di trucco ai miei occhi vuoti da pecora depressa prima della riunione mattutina. La riunione mattutina serve perché la squadra si aggiorni sullo stato delle varie mansioni. All’inizio, quando ero arrivata, questo si faceva con un giro di tavolo in cui ciascuno descriveva in poche parole cosa aveva fatto il giorno prima, ma prestissimo questa intrusione del discorso narrativo in prima persona era stata soppressa in quanto poco “problem-oriented” e troppo drammaturgica a favore di una lavagna bianca con alcuni post it rappresentanti i vari compiti e il loro stadio. Alle insindacabili ore 9.45 il rituale inizia con l’auto-proclamatosi leader carismatico del team che indica uno per uno i post it e l’assegnataria, se l’avanzamento c’è, che con malcelata esultanza enuncia il nome del compito e la sua nuova classificazione; e se non c’è, che spiega, con vaghezza tesa a minimizzare, le ragioni dello stallo a una platea visibilmente soddisfatta della propria momentanea relativa superiorità.

Il carisma del giovanissimo leader deriva dal suo accento posh, dalla sua autostima titanica, e, soprattutto, dal fatto che è stato il primo, e in parte l’unico, a capire il funzionamento del software usato per riflettere virtualmente la lavagna bianca e tutte le varie intricate e burocratiche statistiche da trarne al fine di pianificare la lavagna della settimana seguente. Visto che le statistiche non rappresentano niente, la pianificazione avviene a caso, ma, si sa, il caso ritoccato con qualche numero ha un’aria molto professionale. Com’è naturale per una pecorella smarrita, emotiva e suggestionabile come me, avevo una cotta per il leader, che però mi sono imposta di domare a ogni costo dopo la scottante delusione del giorno in cui mi alzai mezz’ora prima per farmi bella e lui — unica volta in mesi! — non venne in ufficio. D’altronde una semi alcolizzata insicura, poco pulita e sempre in preda a tic può farsi ben poche illusioni romantiche, e comunque lui aveva già la sua principessa, che ebbi anche l’onore di vedere in carne e ossa in tutta la sua aura di chi ce l’ha fatta quando la portò a un ballo aziendale.

Dopo giorni di trial and error, resa anche un po’ spregiudicata dall’esasperazione e quindi operando delle strategiche omissioni, riesco a finalmente a fare in modo che il mio codice superi i test. La felicità è grande, anche se, come sempre, non ho affatto le idee chiare sul perché questa ottantatreesima combinazione riesca laddove le altre ottantadue hanno fallito. Comunque, metto trionfante il mio lavoro sotto gli occhi dei colleghi per iniziare il processo di “peer-review”. Un brevissimo idillio con il successo troncato da un collega, arrivato da poco come me, che nota e fa notare come il lavoro manchi di tutto un ordine ulteriore di test necessari: e stavolta non si tratta di premere un pulsante e sperare nel successo, ma di scriverli, da zero. Inutile rievocare le inutili settimane passate a copia-incollare test analoghi trovati nei database aziendali, a riscontrarne e mascherarne l’inadeguatezza, a ricercare giustificazioni per la loro riduzione. Settimane coronate da un localizzato successo in quanto il pigro collega, a questo secondo giro, non fiuta nemmeno la scarsa qualità del prodotto e se ne dice soddisfatto. Peccato che a fiutarla, pochissimo dopo, sia un altro team in un altro continente, alle cui oneste e sensate richieste di correzioni io non trovo di meglio da opporre che un panico vittimista. La voce seria, pacata e gentile di questa collega d’oltreoceano sarebbe rimasta con me fino all’ultimo giorno di lavoro, sempre reiterando la sua giusta richiesta, razionalità inconsapevole della degradazione della mia volontà e del mio status. Sì, perché, poco dopo questo clamoroso fallimento coronato da una riunione risolutiva con tanto di superiori, in cui esso fu il tema principale — la mia umiliazione fu totale e proporzionali i gongolii dei più insicuri tra i miei pari —, fui declassata al livello professionale inferiore, perdendo, non ancora lo stipendio da ingegnere, ma le funzioni.

Tutti dicono di avere, come tutti, la sindrome dell’impostore, perché questo è un posto così pieno di persone geniali. Io credo che il mio caso sia un po’ diverso, perché non solo non capisco (nessuno capisce), non solo non mi oriento (molti non si orientano), non solo non risolvo problemi (alcuni altri non fanno nemmeno questo), ma nemmeno apprezzo e valorizzo la fortuna, al giorno d’oggi inestimabile, di avere un posto di lavoro ben pagato e abbastanza prestigioso. Non è una scelta, anzi vorrei apprezzare ma non riesco che a odiare questi inestricabili grovigli di logica e burocrazia che sorpassano le mie capacità di comprensione e azione di così tanto da spezzarmi il cuore, un cuore ancora troppo affezionato all’idea di battere per un cervello intelligente.

Il peso dell’umiliazione è minore del sollievo di avere finalmente la sensazione di saper fare quel che ci si aspetta da me. Inoltre ho superato la soglia della vergogna e non ho più così tanta paura a mostrare le mie debolezze ed ignoranze. Sono colei che stava fallendo e ha avuto il coraggio di ammetterlo, e sento che almeno un po’ di stima mi sia dovuta per questo. Mi sento al controllo, mi sento giusta. Le dita volano agili e sicure da un tasto all’altro, alla mia console sono come un abile aviatore, i comandi rispondono docili al mio esperto volere, tutto fila liscio, decollo tragitto atterraggio (applausi), le occasionali perturbazioni le so gestire e superare. Uno dopo l’altro i miei task transumano da una colonna all’altra dello schema di avanzamento, come bovini obbedienti. I am delivering! E anche a passo più che accettabile. A volte resto in ufficio fino a mezzanotte per spremere fino all’ultima goccia la mia nuova percepita eccellenza.

Ogni tanto si tratta solo di aggiungere alla buona migliaia di nuovi elementi a un database, posso farlo quasi senza pensare. Presto però un giovane collega di livello infimo introduce un’acclamata innovazione nel processo per renderlo più automatizzato, e io vado in crisi – gli automatismi della mente e delle dita appresi con fatica sono ormai vani, devo invece imparare a usare un complicato e insidioso foglio Excel. Apprendo anche che il mio lavoro precedente è di qualità troppo bassa. Però a nessuno importa più di tanto e io vengo riassegnata a una mansione più “ingegneristica”.

Sono le 18, è venerdì. Pare che tutto vada per il meglio. Il mio codice sembra funzionare, ha superato tutti i controlli preliminari: è pronto per diventare attivo. So che è un momento delicato ma non me curo troppo, certo all’inizio sudavo freddo in questa fase pericolosa, ma adesso, con tutta la mia esperienza, sono tranquilla e pregusto il distendersi dei nervi quando tutto sarà finito e tornerò a casa e berrò una birra e passerò l’aspirapolvere per la prima volta in mesi perché i miei genitori domani vengono a trovarmi. Digito il comando cruciale. Qualcosa si inceppa. C’è quello che il software chiama un conflitto. Resto calma. C’è una sezione nel nostro vangelo for dummies proprio su come risolvere i conflitti come questo. La recupero e comincio a seguire i passi elencati. Ma i punti sono parole astratte che si librano ben al disopra delle sabbie mobili di codice errori e warnings in cui sono caduta. Non mi oriento nella schermata ribelle, il nuovo formato in cui sono stata trasportata come in un maleficio non risponde ai miei disperati tentativi di comando e finanche di umile dialogo. Come nei sogni in cui devo correre ma ho dimenticato, o non ho mai saputo, come si fa. E allora, nei sogni, faccio movimenti locomotori impacciati e strani, a quattro zampe, sulla schiena, all’indietro. Così nella troppo reale sera di dicembre comincio a premere tutti i tasti a caso, solo per uscire, in un modo o nell’altro, dall’incubo. Alla fine, non so come, ci riesco, e sebbene l’indelebile cronologia porti tutte le tracce dell’assurdo svarione mi sento sopravvissuta. Tiro un sospiro e passo a un altro compito.

Come ultima cosa prima di lasciare l’ufficio, per compilare il report settimanale, controllo se il mio codice funziona correttamente. No, non funziona. Pondero se truccare il report e andare a casa. Ma sì. Perché no. Probabilmente non lo vedo funzionante per una questione di tempo o per un bug dell’interfaccia. Per scrupolo, faccio un controllo un po’ più approfondito. Il mio codice pare aver superato tutti gli stadi di implementazione. Allora perché non fa quel che dovrebbe? è strano. Apro il codice nella versione recepita dal grande sistema di controlli finali automatici e attivazione. Quasi non lo riconosco. Non è il codice che io ho scritto e testato, non solo almeno – un’intera ulteriore parte dall’origine misteriosa si è materializzata mettendo a repentaglio con modifiche avventate e senza senso le funzionalità di base del sistema globale. IL SISTEMA GLOBALE. Sono le 19.30 ora di Greenwich e in tutto il mondo qualcosa di così grande e importante è in tilt per colpa mia.

Non persi il posto quella sera. Riversando panico e rancore in suppliche insistenti a tappeto nei gruppi chat aziendali trovai, tramite un paterno collega, un ingegnere in un altro paese disposto ad aiutarmi e disfare quel che avevo fatto. Il fattaccio fu abbastanza facilmente dimenticato, e la sua gravità era stata comunque attutita da ulteriori checkpoint nella catena di attivazione che avevano infine impedito al codice impazzito di disabilitare il servizio al livello del consumatore.

Rimasi qualche altro mese, giusto in tempo per scoprire che molto del lavoro che avevo svolto nel mio periodo di percepita eccellenza era in realtà viziato, errato, da rifare – e disfarne parte io stessa. Il fatto che le umiliazioni fossero scontate non le rendeva meno dolorose. Mi licenziai perché non potevo più sopportare il loro martellamento, continuo, sicuro come il sorgere del sole. La compagnia ha perso molte migliaia di sterline per questa rincoglionita incapace che voleva fare carriera in un mondo in cui non era nemmeno capace di reggersi in piedi. La ringoglionita in questione ha perso la credenza, illusoria forse ma balsamica, di possedere i doni spirituali che il nostro presente chiama intelligenza.